Stasera in tv Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (versione integrale)

Stasera in tv su Rai 3 alle 02,00 Fanny e Alexander, un film del 1982 diretto da Ingmar Bergman. Nato originariamente come film per la televisione, e licenziato in una prima versione di cinque ore studiata per una eventuale suddivisione in puntate, fu convertito in una versione per il cinema di una durata di circa tre ore; i tagli hanno dato adito a qualche critica circa la inattesa apparizione o la repentina “scomparsa” di alcuni personaggi. Il film vinse quattro premi Oscar su sei candidature; le candidature per il premio al miglior regista e alla migliore sceneggiatura originale, entrambe riferite a Bergman, non furono coronate da successo, negando al regista l’ultima possibilità di ricevere una statuetta personale per una sua opera. Con Pernilla Allwin, Bertil Guve, Börje Ahlstedt, Erland Josephson, Allan Edwall, Ewa Fröling, Kristina Adolphson, Kristian Almgren.

Trama
La tormentata saga della famiglia Ekdhal di Uppsala agli inizi del secolo, vista con gli occhi dell’adolescente Alexander e della sorellina Fanny. Fortemente autobiografico, è il film-testamento di Bergman e un omaggio al teatro e al cinema.

«Tutto può accadere, tutto é possibile e verosimile. II tempo e lo spazio non esistono. Su una vacillante base di realtà, l’immaginazione fila e tesse nuove trame».
(Il sogno, August Strindberg)

“Così inizia, così finisce Fanny e Alexander. Con un motto inciso sul frontespizio della baracca delle marionette azionate da Alexander, messo in evidenza nella prima inquadratura dei film (in lingua norvegese, non in svedese) e con la frase di Strindberg letta da Helena, la matriarca della famiglia Ekdahl, dal copione di Il sogno, apparso da qualche anno (siamo nel 1908). La vena più autentica di Fanny e Alexander è la melanconia, che è una disperazione tranquilla, ma sempre uno stato di tristezza, accompagnato spesso dall’ansia (e ciò anche se Bergman fa professione di pacificazione patriarcale): tanto più evidente, questa “chiave”, nell’edizione filmica di tre ore, in cui i fatti “drammatici” ci sono tutti e risultano perciò condensati, mentre in quella “lunga” essi risultano diluiti fra parti compiaciute dove domina il piacere della descrizione e della contemplazione. Non è questione di fatti, dunque, ma di atteggiamento, non di “messaggi” e di nuovi approdi bergmaniani, ma di sfumature. Fanny e Alexander è un film di sottigliezze, ed è qui il suo interesse primario, qui sono le sue cose più belle, dentro il gran racconto opulento dalla struttura di kolossal familiare, che può anche apparire sussiegosamente estetizzante. Dopo tante sonate, quartetti, concerti da camera, siamo giunti alla sinfonia per grande orchestra (ora sì sinfonia, non come quella d’autunno che era diventata tale solo per volere dei distributori italiani). E forse la chiave giusta per considerare questo film è prenderlo come una grande metafora del teatro, del cinema, dello spettacolo in genere. Qui l’amore si esplica davvero senza riserve, sia che si mettano in scena i quadri plastici di un presepe popolare, sia che si progetti Strindberg, sia che si esegua la marcetta da circo che il Beethoven della marcia funebre; e il teatro in muratura, la baracca di legno delle marionette, la meraviglia tecnica della lanterna magica hanno la stessa dignità e la stessa funzione. Anche nella cialtroneria, la gente di spettacolo è amata (“Mi piacciono soprattutto le persone che lavorano in questo mondo”)”.
(Ermanno Comuzio, Cineforum n. 231 1-2/1984)

Fanny e Alexander dimostra soprattutto la qualità poetica di Bergman, la sua capacità di rendere piana, struggente e necessaria ogni storia. Il riepilogo bergmaniano di questo bellissimo film è in chiave di favola infantile, di un’infanzia rivisitata con gli occhi, le malinconie e il coraggio degli adulti, storia di una famiglia di teatranti agli inizi del secolo, storia di due fratelli, il bambino Alexander, la bambina Fanny, che aprono gli occhi sul mondo tra la finzione dell’arte e le durezze dell’esperienza. Bergman non rinuncia a nulla delle sue paure autobiografiche (tanto è vero che il film comincia con il piccolo Alexander che vede la morte accucciata in salotto), ma aggiunge quella parte lieta di sé, che si vede, per esempio, in Sorrisi di una notte d’estate, e aggiunge una nuova filosofia, che supera i dubbi e le angosce esistenziali: gli uomini sono soli, non c’è una realtà fuori dal mondo, la felicità consiste nell’adattarsi alle cose, la felicità è la piccola o grande gioia laica dell’amore e dei sensi.”
(Stefano Reggiani, La Stampa)

«L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore».

 

 

Luca Biscontini