Stasera in tv Il ladro di bambini di Gianni Amelio

Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 (ma disponibile anche su RaiPlay) Il ladro di bambini, un film del 1992 diretto da Gianni Amelio, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 45º Festival di Cannes. Prodotto da Angelo Rizzoli, con il soggetto e la sceneggiatura di Gianni Amelio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli, la fotografia di Tonino Nardi e Renato Tafuri, il montaggio di Simona Paggi, le scenografie di Andrea Crisanti e le musiche di Franco Piersanti, Il ladro di bambini è interpretato da Enrico Lo Verso, Valentina Scalici, Giuseppe Ieracitano, Florence Darel, Marina Golovine, Renato Carpentieri, Vitalba Andrea. Oltre al riconoscimento al Festival di Cannes, il film si è aggiudicato sette David di Donatello (tra cui miglior film e miglior regia), tre Nastri d’Argento e l’European Film Awards per il miglior film.

Trama
Rosetta, (Scalici), una bimba di dieci anni di origine siciliana residente a Milano, deve essere scortata con il fratellino Luciano (Ieracitano) in un istituto per minori a rischio, a Civitavecchia, perché la loro mamma è stata arrestata. Motivo: istigazione e sfruttamento della prostituzione. L’accompagnamento viene affidato a una coppia di giovani carabinieri. Data la facilità dell’incombenza, uno si eclissa con la complicità dell’altro, Antonio (Lo Verso), che si mette in viaggio. A Civitavecchia però il direttore dell’istituto si rifiuta di accogliere i bambini appellandosi a una serie di cavilli burocratici e il viaggio deve così prolungarsi fino alla Sicilia, dove vivono i parenti dei piccoli. Durante questo secondo tragitto il militare decide di compiere alcune divagazioni, tra cui una visita ai propri parenti in Calabria e una breve sosta al mare.

“Vincitore nel 1992 del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e del Felix per il miglior film europeo, Il ladro di bambini è tra i pochissimi film italiani dagli anni Settanta in poi il cui impegno di realismo incondizionato, moralità e libertà di sguardo siano alla stessa altezza del nostro cinema del secondo dopoguerra, che tali valori aveva iscritti nel proprio codice genetico. Con lo stesso titolo di una sceneggiatura scritta insieme a Enzo Ungari vent’anni prima e mai girata ‒ a dimostrazione di quanto a lungo questa idea abbia lavorato nella sua immaginazione ‒ Gianni Amelio racconta ancora una volta (come ha fatto da La fine del gioco, 1970, a Colpire al cuore, 1982) la storia di un’infanzia negata e di una paternità impossibile, di adulti e adolescenti smascherati da una irriducibilità reciproca: un territorio in cui per la prima volta compaiono la comprensione e l’empatia, incarnati in un personaggio, il giovane carabiniere, che tenta eroicamente una sortita nel mondo dei bambini per conquistarvi, anche se fugacemente, una dignitosa identità.

Ispirato da un fatto di cronaca, il film è un ‘viaggio in Italia’ alla scoperta di un paesaggio disadorno, degradato, scarno e rumoroso, fatto di stazioni e piccoli abusi edilizi, di caserme e commissariati, di periferie assordanti e dello splendore luminoso del Sud. L’autore alterna l’eccellente capacità di trasformare persone in attori tipica del neorealismo (i due bambini) a una tecnica dell’inquadratura intessuta di vuoti e di silenzi e a un uso del sonoro che carica ogni scena degli infiniti rilievi dell’ambiente, i quali ricordano invece lo stile di Antonioni. Di fronte a una macchina in “paziente attesa” (L. Pellizzari), il giovane carabiniere si porta appresso per l’Italia due bambini come oggetti smarriti, tanto che Amelio li ritrae costantemente in luoghi d’attesa e abbandono: le sale d’aspetto, gli sgabuzzini dell’istituto che si rifiuta di ospitarli, le panche dei commissariati. Il risultato è la composizione di una sterminata oggettività perlustrata da un occhio che, celando il proprio sconcerto, sembra aggirarvisi per la prima volta e di una spoglia tenerezza che irradia unicamente dai momenti di contatto degli interpreti in scena. Entrambe conferiscono a tutto il film un tono inimitabile. La remota allusione fiabesca (Hansel e Grethel) è gradualmente riempita dalla concretezza di gesti e relazioni, dalla lenta formazione di una inedita famiglia che, come scrive Ida Magli, testimonia della «sopravvalutazione del ruolo della madre nella società italiana».

È un film in cui si è tentati di imputare alla direzione degli attori buona parte dei meriti, ma ciò che invece ne determina la struttura profonda è proprio il dominio del dosaggio della narrazione (qualità caratteristica degli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia), dell’impercettibilità della regia (la scelta degli ambienti, la gradualità sorvegliatissima delle notazioni psicologiche, l’arrivo dei piani ravvicinati quando, e solo quando, il film ha realizzato le ragioni di un rapporto e di un sentimento). Certamente, è anche un film scritto e vissuto fino alla fine della sua realizzazione: come ha affermato Amelio, insieme al finale attuale ne era stato girato un altro (il finale originale della sceneggiatura), non montato, in cui Luciano, il bambino, uccideva il carabiniere con la sua pistola d’ordinanza. E invece non c’è finale che più somigli al suo cinema di quello che è adesso nel film, con due ragazzini che ritornano al loro punto di partenza senza più poter credere all’aiuto di un adulto, malinconici, disillusi e insieme forti: convinti di dovercela fare, ancora una volta, da soli”.
(Mario Sesti, Enciclopedia del Cinema, 2004)

 

 

Luca Biscontini