Stasera in tv su Rai 1 alle 21,15 La forma dell’acqua (The Shape of Water), un film del 2017 diretto da Guillermo del Toro. Il film ha vinto il Leone d’oro al miglior film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e si è aggiudicato quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, vincendo il premio per il miglior film, il miglior regista, la migliore scenografia e la migliore colonna sonora. Con la direzione della fotografia di Dan Laustsen, le scenografie di Paul D. Austerberry, i costumi di Luis Sequeira e le musiche di Alexandre Desplat, La forma dell’acqua è interpretato da Sally Hawkins, Michael Shannon, Richard Jenkins, Octavia Spencer, Michael Stuhlbarg.
Nel 1963 nell’America segnata dalla guerra fredda, in un laboratorio governativo segreto ad alta sicurezza lavora la solitaria Elisa, muta dalla nascita e intrappolata in un’esistenza di silenzio e isolamento. La sua vita cambia però in maniera inevitabile quando con la collaboratrice Zelda scopre un esperimento classificato come segreto.

Lo spazio acquatico riformula completamente la topologia delle relazioni, laddove i protagonisti sprofondano nell’informe, in un luogo che sfugge alla tirannia della rappresentazione. La brava Sally Hawkins, che nel film interpreta un’inserviente muta, è dispensata dal linguaggio e ciò che di primo acchito appare come una deficienza in realtà configura un soggetto meravigliosamente affrancato dalla gabbia soffocante dell’ordine simbolico. Non comunica attraverso i significati, ma libera ‘selve’ di significanti che si muovono da un ‘dentro’ a un altro ‘dentro’. Insomma, non c’è mediazione e ciò che si prova, che si vive emotivamente, viene trasferito dall’uno all’altro senza la codificazione del pensiero. È la vittoria del ‘non detto’, dell’afasia: il corpo perturbante delle creatura degli abissi passa in secondo piano, poiché anche l’immagine è linguaggio. L’acqua costituisce la possibilità di un divenire senza attrito, dispensato dal pericolo mortale dell’inerzia.
In questo senso – chi scrive ritiene che non sia un fuori tema, tutt’altro – la tanto vituperata liquidità del capitale non somiglia più a quella mostruosa deriva che condurrebbe l’umanità verso il definitivo naufragio – come postulano tanti ‘commentatori’ alla buona dei nostri tempi – piuttosto assume il ruolo di essenziale premessa di un processo che, se compiuto fino in fondo, determinerebbe, almeno come ‘ideale regolativo’, un’insperata liberazione. Un ritorno al nostro elemento (l’organismo umano è composto al 60% di acqua), all’origine, a quella dimensione ancestrale e sacra sistematicamente occultata dalla prosaicità di un presente scandito da un’iperbolica logica economica (economia a tutti i livelli, anche psichica ed emotiva, in particolare). Quel ‘mondo accanto’, quel mare che da sempre lambisce le terre emerse (del linguaggio) ci reclama, come una madre che non aspettasse altro che il ritorno dei propri figli. Non era in fondo proprio questa la ‘nostalgia del sacro’ di Pier Paolo Pasolini, la quale prese esemplarmente forma in Medea, in particolare attraverso il celebre discorso dei due centauri?
Siamo in presenza di un inebriante depensamento che, dissipando le differenze fittizie tra gli individui – quelle scaturite, per l’appunto, dall’artificiosità del linguaggio –, consentirebbe di affondare i piedi su quel piano d’immanenza che da sempre si giustappone ai rapporti di forza del mondo dialettico. Ma la dimensione così inaugurata, si badi bene, non è un ‘fuori’ rispetto a un presunto ‘dentro’, piuttosto qualcosa che c’è già da sempre. Si tratta, allora, di cambiarsi gli occhi, di compiere una torsione che è insieme etica ed estetica per far sprofondare il visibile (il linguaggio) nell’invisibile, in modo da agevolare l’esperienza della liquidità dell’informe: non c’è più un atto che informa la materia (per dirla aristotelicamente), non c’è più un Potere che limita e circoscrive la Potenza. Non resta che immergersi nelle acque di un sacro divenire. Platone nel suo Cratilo scriveva: «Dice Eraclito “che tutto si muove e nulla sta fermo” e confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, dice che “non potresti entrare due volte nello stesso fiume”». D’altronde, viene detto apertamente durante il film, la creatura degli abissi, che l’ottuso colonnello Strickland (un buon Michael Shannon) prima cattura e poi vorrebbe uccidere, è considerato un dio dalle popolazioni autoctone dei territori del Sudamerica da cui è stato strappato.
Ciò cui The Shape of Water costantemente allude sono un tempo e uno spazio ‘altri’ (una ‘durata’ e un piano d’immanenza) che possono essere guadagnati liberandosi dal linguaggio, dalla Storia, dal Potere, dall’ordine simbolico, dall’atto: si deve ‘perseverare’, cioè non solo evitare di indugiare in una retorica critica dell’esistente, che rivendica nostalgicamente l’edenica bellezza di un paradiso fatalmente perduto, quanto, al contrario, rilanciare, radicalizzando il vorticoso movimento in avanti della postmodernità. Insomma, non dobbiamo, tanto per fare un esempio, spaventarci di fronte ai progressi della tecnologia, ma invocarne un vertiginoso, ulteriore sviluppo che davvero ci sorprenda e ci liberi.
A livello visivo, il film di Guillermo Del Toro rimane per lo più nei paraggi della rappresentazione, ma non mancano alcuni guizzi che segnalano e, in qualche modo, mostrano (sempre che si sia disposti a vederle), le tracce di qualcosa che esorbita i limiti della forma (per esempio la bella sequenza delle gocce d’acqua sul finestrino di un autobus, le quali, dilatandosi, unendosi, separandosi, urtandosi, delineano un movimento libero, non diretto verso un oggetto. Questo è senza dubbio un altro punto decisivo: non è un fine a determinare il divenire; non c’è causa, né scopo, esso è spontaneo e disinteressato).
Luca Biscontini
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