Stasera in tv La ruota delle meraviglie di Woody Allen

Stasera in tv su Rai Movie alle 21,10 La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel), un film del 2017 scritto e diretto da Woody Allen. Scritto e diretto da Woody Allen, con la direzione della fotografia di Vittorio Storaro, il montaggio di Alisa Lepselter, le scenografie di Santo Loquasto e i costumi di Suzy Benzinger, La ruota delle meraviglie è interpretato da Kate Winslet, James Belushi, Justin Timberlake, Juno Temple, Jack Gore, David Krumholtz.

Trama
Coney Island, anni Cinquanta. Un bagnino (Justin Timberlake) ripercorre una storia che potrebbe essere filtrata dalla sua fervida immaginazione: una coppia, formata dal giostraio di mezza età Humpty (James Belushi) e dalla moglie Ginny, un’ex attrice che lavora come cameriera (Kate Winslet), vive sul lungomare. La loro esistenza scorre tra alti e bassi fino al giorno in cui i due ricevono la visita dell’alienata figlia Carolina (Juno Temple), in fuga dai gangster, con tutte le conseguenze del caso.

Senza cincischiare, entriamo subito a gamba tesa sull’ultima prova di Woody Allen, La ruota delle meraviglie, cercando di illuminare ciò che fornisce valore a un film nel complesso gradevole. Cominciamo con il dire che un dato interessante è senza dubbio fornito dalla circostanza che vede il narratore della storia, il bagnino-drammaturgo Mickey Rubin (un discreto Justin Timberlake), ricoprire al tempo stesso il ruolo di uno dei personaggi principali, come se Allen ci volesse avvisare, sin dall’inizio, che la vicenda messa in scena è percorsa da un corto circuito che provoca la riduzione (fino alla sparizione) della soglia che separa la Vita dalla Rappresentazione. Una notevole dichiarazione d’intenti, alla quale, però – ci è parso – non segue una congrua messa in scena, che valorizzi, concretizzandola, l’altisonante premessa.

Ma Allen, che è un uomo fin troppo intelligente, scherza, laddove indugia simpaticamente in un intrigo da romanzetto rosa, mosso dal desiderio (ilare) di indagare le dinamiche psicologiche che inducono la protagonista, Ginny (una multiforme Kate Winslet), a reiterare alcuni comportamenti inopportuni (in particolare la tendenza al tradimento). Ma, come ci segnala palesemente il titolo, si tratta di una giostra, di una sarabanda di situazioni che, in virtù di un artificioso sali-scendi emotivo, perdono la loro (apparente) drammaticità, acquisendo l’esclusiva funzione di intrattenere il pubblico, il quale, mentre assiste alle patetiche vicende emotive dell’infelice donna, sghignazza quasi, immaginando il divertimento provato dall’autore nel dare corpo a un personaggio in realtà non degno di particolari attenzioni.

Ginny è una fedifraga recidiva: prima ha tradito l’uomo che amava (che l’ha abbandonata per il troppo dolore), poi, dopo essersi risposata con Humpty (Jim Belushi), solo per riprendersi dal trauma della separazione subita, tesse una nuova relazione clandestina, stavolta con il bagnino-intellettuale (forse, se si fosse trovata in una località montana, siamo persuasi che avrebbe iniziato un rendez-vouz con un maestro di sci – questa chiosa un po’ velenosa deriva dal fatto che lo scialbore della vita e dei desideri di Ginny a tratti quasi irrita).

L’altra protagonista indiscussa è la Coney Island degli anni Cinquanta in cui è ambientato il film, magistralmente restituita con poche ma assai incisive pennellate dal maestro della luce Vittorio Storaro. E, a tal proposito, merita una trattazione a parte la fotografia che, crediamo, contribuisca a segnalare ulteriormente la profonda ironia che sottende l’intera messa in scena. I lampi di luce caravaggeschi (tipici di Storaro), che s’infrangono drammaticamente sulle ciocche di capelli di Ginny, non amplificano visivamente il tormento interiore della protagonista, sorge piuttosto un contrasto grottesco che evidenzia l’inconsistenza e la mediocrità di una donna, la quale, per tutta la vita, non ha saputo far altro che rincorrere la chimera di un fantasmatico amore, reputandolo, irragionevolmente, la panacea di tutti mali.

L’epilogo, però – Allen muta a questo punto sensibilmente registro – mostra un colpo di coda che, ancora di più, mette in risalto quanto il desiderio effimero di una relazione, che si ritiene (maldestramente) totalizzante, possa dar adito a comportamenti estremi, che svelano l’inusitata violenza insita anche in persone a prima vista innocue. L’inversione di segno che chiude il film illumina retroattivamente l’intera storia messa in scena, apportando una significativa modificazione di senso che riposiziona completamente le prospettive di osservazione.

L’inoffensiva commedia degli equivoci che si paventava all’inizio della narrazione si torce in un’amara riflessione sull’abiezione dell’essere umano, il quale, perso come una barca alla deriva sulle fluttuanti onde di un mare agitato, risulta sprovvisto di orientamento e di soluzioni praticabili per recuperare la giusta rotta. A irritare non è il male compiuto da Ginny, ma la sua mancanza di lucidità, l’incapacità di dare una direzione alla propria vita che non sia in funzione dell’altro (essa non prende neanche in considerazione l’ipotesi di investire su se stessa, sulla propria crescita umana). L’urgenza di sentirsi inserita in un ordine simbolico rassicurante e l’esigenza di evaderne qualora si presenti una tentazione allettante danno luogo a una miserabile frizione da cui scaturiscono le sue meschine nevrosi: essa è un personaggio nel complesso insulso, il quale, anche in assenza di un atto palesemente illecito, che pure alla fine compie, meriterebbe comunque una forte disapprovazione.

Forse è un po’ iperbolico, ma, a parere dello scrivente, Ginny incarna esemplarmente, sul piano del quotidiano e con le dovute proporzioni, quella banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Sono la grettezza, la miopia di fondo e l’incapacità di aprirsi a orizzonti più ampi a provocare funesti eventi in un’esistenza vissuta sempre a fior di pelle, senza capirne il significato.

Interessante più che mai, dunque, appare il doppio registro che Allen impiega in modo inaspettato, disorientante, costringendo lo spettatore a prodursi in una torsione di sguardo attraverso cui re-visionare l’intero senso di un film che sulle prime sembra muoversi in superficie, mai che poi, con una decisa virata, s’inabissa, convocando a una valutazione non scontata sulla natura dell’essere umano (e non vogliamo scomodare le tante, possibili, fonti letterarie). Resta comunque il dovere di segnalare La ruota della meraviglie quale film da prendere in considerazione per le visioni del periodo natalizio.

 

 

Luca Biscontini