Stasera in tv Le amiche di Michelangelo Antonioni

Stasera in tv su Rai 1 alle 01,45 (ma disponibile anche su RaiPlay) Le amiche, un film del 1955 diretto da Michelangelo Antonioni, liberamente tratto dal romanzo Tra donne sole di Cesare Pavese. L’opera, la quinta del regista di Ferrara, ha riscosso un buon successo di critica tanto da essere premiata con il Leone d’argento alla 16ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Prodotto da Giovanni Addessi, sceneggiato da Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi D’Amico e Alba de Céspedes, con la fotografia di Gianni Di Venanzo, il montaggio di Eraldo Da Roma, le scenografie di Gianni Polidori, i costumi di Atelier Fontana e le musiche di Giovanni Fusco, Le amiche è interpretato da Eleonora Rossi Drago, Valentina Cortese, Gabriele Ferzetti, Franco Fabrizi, Yvonne Furneaux, Madeleine Fischer, Anna Maria Pancani, Ettore Manni, Isabella Biagini. Il film si è anche aggiudicato due Nastri d’Argento (per la migliore fotografia e per la migliore attrice non protagonista, Valentina Cortese) e la Grolla d’oro per il miglior film,

Trama
Sbarcata a Torino per lavoro, la giovane romana Clelia conosce Rosetta in circostanze drammatiche. La ragazza, infatti, ha appena tentato il suicidio per amore. E successivamente le sue amiche, variamente coinvolte in vicende sentimentali critiche che sembrano affrontare con la massima disinvoltura. Disinvoltura che manca a Rosetta: tenterà una seconda volta di togliersi la vita. Clelia, dapprima propensa a fermarsi a Torino, torna a Roma.

Di seguito riportiamo le dichiarazioni di Michelangelo Antonioni sul film, apparse su Cinema Nuovo il 10 Febbraio del 1956.

In Pavese il pericolo era sempre latente, soprattutto in un racconto come Tra donne sole scritto in una prosa così incantata, allusiva, ferma in un mondo di sentimenti come una pianta miracolosamente immobile in un mulinello del vento. Portare sullo schermo il racconto così com’è sarebbe stato non solo impossibile, ma forse dannoso a Pavese stesso. Il cambiamento di linguaggio porta inevitabilmente a modifiche sostanziali. Non voglio affermare l’esistenza di uno “specifico cinematografico”, ma se non altro una portata pratica l’affermazione ce l’ha. Si sarebbe forse potuto seguire un’altra strada, quella della sottomissione completa del cinema alla letteratura, per esempio adottando uno speaker che leggesse le parole di Pavese, e illustrando queste parole con delle immagini. Tutto è possibile. Ma io non credo a simili ibridismi e non credendoci non sarei mai riuscito ad essere sincero adottandoli.

Le illustrazioni di un’opera letteraria hanno valore artistico nella misura in cui non sono illustrazioni. Cosi è per il cinema. La fedeltà a Pavese non poteva essere un fatto aprioristico e letterale. Se ho scelto questa vicenda piuttosto che un’altra evidentemente una ragione c’era. “Ragione” è forse la parola meno propria, si trattava piuttosto di qualcosa che sfuggiva alla ragione, ed era quindi impossibile ragionarci su. Qualche critico ha scritto che Le amiche è un film intelligente. Posso dire di averlo fatto sotto la spinta di facoltà diverse dall’intelligenza, nei limiti naturalmente in cui ciò è possibile. Se il film, per usare le sue stesse parole, dà di Pavese «un’interpretazione fondamentalmente giusta», vuol dire che la scelta stessa è una garanzia di fedeltà, la sola che potessi dare in buona fede. E che era giusto non farne un problema, il problema essendo un altro: quello della autonomia del film, della sua validità.

Ecco perché le critiche che si ostinano a comparare film e racconto rischiano di uscire di strada. l’accaduto perfino, secondo me, a Filippo Sacchi, per il quale l’aver dato concretezza al suicidio di Rosetta ha fatto scadere di tono il suicidio stesso. Come se un suicidio possa essere più bello di un altro, fuori del fatto espressivo, Sacchi può obbiettare che è a quello del film cosi espresso che si riferisce: in tal caso non ho altro da dire, se non esprimere il mio disappunto, l’irritazione di cui parlavo in principio. Credevo di aver dato al personaggio di Rosetta una sua sincerità, un suo pudore direi figurativo, tale da evitagli la banalità. Senza aggiungere poi che il movente amoroso del suicidio, nel film, non è che la goccia che fa traboccare il vaso di una noia di vivere, di una impossibilità a legare con la vita, che sono i motivi di Pavese. Ma il suicidio del racconto trasportato di peso sullo schermo sarebbe rimasto in ogni caso letterario.

Quanto al contenuto morale del film, il discorso è analogo. Taluni critici mi hanno rimproverato di non aver fatto di Carlo un personaggio dialettico. Non ho alcuna esitazione a dichiarare che detesto i personaggi chiave. Il mio mestiere è quello di fare il regista, ma è anche quello di vivere, come dice Pavese. Vivere in una società, in un ambiente, avere dei rapporti con i propri simili, fare delle esperienze. Non sarà certo dirigendo un film che posso dimenticare tutto questo. Le mie esperienze, le mie opinioni, i miei stessi errori, che sono quello che c’è di più personale in un’esperienza, coleranno nel film mio malgrado, se sono sincero. Se il film riesce, ciascuno potrà ricavarle. Se non le ricava vuol dire che il film è mancato. Ma lo è sul piano estetico, questo lo voglio sottolineare. Così quando lei giudica il personaggio di Clelia confuso, questa è una critica che io posso condividere o meno (la condivido), ma è legittima.

Le amiche è un film di cui potendo rigirerei almeno un terzo. È stato realizzato nelle condizioni peggiori. Incominciato da una casa di produzione, è stato ripreso da un’altra dopo due mesi e mezzo di interruzione. Due mesi e mezzo di interruzione sono molti. Ma quello che è peggio è che tutto questo tempo è stato speso in trattative finanziarie, colloqui, discussioni, a tu per tu cioè con la faccia prosaica del cinema, quella che un regista, almeno girando, dovrebbe ignorare. È triste constatare de visu che una storia di personaggi, un conflitto di sentimenti e di psicologie, uno svolgersi di stati d’animo e di atmosfere diventano un affare; che sentimenti, stati d’animo, atmosfere pesano sulla bilancia della speculazione.

È avvilente dover raccontare la vicenda decine e decine di volte a facce sconosciute (non so perché, ma a certe facce non riesco a raccontare certe storie); trovarsi di fronte alle reazioni, alle espressioni più impensate; sentirsi fare i rilievi più strani, come il seguente: «Perché non facciamo che Momina ha un cane che poi muore nel Po? È più commovente».

 

 

Luca Biscontini