Stasera in tv su rete 4 alle 21,25 Lo chiamavano Trinità…, un film del 1970 scritto e diretto da E.B. Clucher, regista anche del sequel …continuavano a chiamarlo Trinità uscito un anno dopo. È un western all’italiana in versione commedia. È considerato un “classico” del cinema italiano, sia per gli amanti del genere commedia sia di quello western, anche se si tratta principalmente di una sobria e divertente parodia dei più cruenti spaghetti western, nata sulla loro proficua scia degli anni sessanta e settanta, di cui ricalca fedelmente lo stile, in cui le consuete sparatorie vengono sostituite dalle scazzottate della coppia Bud Spencer e Terence Hill, vero e proprio “marchio di fabbrica”, che hanno reso famose nei loro svariati film. Il commento musicale, il cui contributo occupa una parte importante nel successo del film, è stato composto da Franco Micalizzi. Il testo del brano che apre e chiude il film, Trinity, è stato scritto dal cantautore britannico Lally Stott. Il cantante che lo esegue è Annibale Giannarelli, un italo-australiano residente in Australia dotato di un’imponente presenza fisica e di una potente voce che ricordava quella di Tom Jones. Il celebre fischio, invece, è stato eseguito dal maestro Alessandro Alessandroni, (lo stesso whistler dei film di Sergio Leone). Nel film del 2012, Django Unchained, di Quentin Tarantino, il tema principale del film viene riproposto nella scena finale, poco prima dei titoli di coda. Con Terence Hill, Bud Spencer, Gisela Hahn, Steffen Zacharias, Dan Sturkie, Farley Granger, Elena Pedemonte, Luciano Rossi.
Trama
Trinità ritrova il fratello lestofante che, sceriffo, sta preparando un furto di cavalli ai danni di un ricco allevatore. Costui, a sua volta, sta tentando con i suoi sgherri di far sloggiare una comunità di mormoni da una zona su cui ha delle mire. Trinità, innamorato di una ragazza mormone, organizza la resistenza dei coloni che non portano armi per scelta religiosa.
In un paesaggio arido, brullo, incede un cavallo che stancamente trascina una stuoia che solca il terreno sabbioso; su di essa giace, col volto coperto da un cappello, un uomo cencioso, sporco, incurante della direzione verso cui sta volgendo; la lunga marcia s’interrompe quando il fedele quadrupede, ormai sfiancato, si ferma presso una locanda sperduta che, come un’inaspettata oasi, offre ristoro al viandante. Segue una strepitosa abbuffata a base di fagioli prima che il misterioso uomo si presenti: “Mi chiamano Trinità”. C’è da aggiungere altro?
La sequenza iniziale del film di Enzo Barboni (alias E. B. Clucher, che, non bisogna dimenticarlo, oltre a dirigere, scrisse soggetto e sceneggiatura) è ormai radicata nell’immaginario di più generazioni di spettatori, laddove il film capostipite di un filone allora sconosciuto, il western comico, era talmente colmo di trovate da divenire un fenomeno che si diffuse velocemente in tutto il mondo, decretando la nascita della coppia di attori italiani più conosciuta all’estero, quei Mario Girotti e Carlo Pedersoli che poi divennero felicemente Terence Hill e Bud Spencer (o viceversa).
Da qui si originò tutto, comprese quelle magnifiche scazzottate, eseguite a tempo di musica, come in un balletto – rivela lo stesso Spencer -, che come un marchio di fabbrica caratterizzarono il connubio artistico dei due, incontrando uno smisurato gradimento del pubblico, che, probabilmente, assistendo a quei corpo a corpo estenuanti a base di sberle e pugni cui seguivano piroette e voli planari dei malcapitati di turno, riusciva a dimenticare per un’ora e mezza tutte le beghe e le magagne di una vita spesso esasperante.
L’effetto ipnotico dei clamorosi colpi sferrati da Bud Spencer, che tramortivano chiunque gli si parasse davanti, e della danza di Terence Hill che, con un agilità degna del miglior ginnasta, mandava a vuoto ogni tentativo di assalto, rimane a tutt’oggi operativo, producendo nuove schiere di ammiratori che colgono l’essenziale innocuità di una rappresentazione in cui ciò che maggiormente emergeva era l’alto tasso di comicità prodotto da un meccanismo che non differiva da quello impiegato dai grandi interpreti del cinema muto, che con i soli gesti (e le mimiche facciali) riuscivano a intrattenere sterminate platee. Probabilmente bisognerà ancora – e il tempo lo confermerà – soffermarsi a lungo sulla capacità dei due attori di creare tanta ilarità, giacché troppo spesso si è omesso di compiere una seria analisi del loro originalissimo modo di fare cinema. Si dovrà attendere la ‘solita’ rivalutazione, che sarà sempre tardiva.
Trinità e Bambino sono la mano destra e sinistra del diavolo: il primo è intelligente, scaltro, veloce; l’altro potente, zuccone e brontolone. Figli di una donna di facili costumi che dirige un bordello a New Orleans, i due si arrabattano delinquendo, senza però fare male a nessuno. Uno è un baro, l’altro un razziatore di cavalli. Quando Trinità raggiunge il fratello, a cui in fondo vuole bene, si riforma la coppia; insieme costituiscono un duo impossibile da battere, e a farne le spese sarà un cinico maggiore (quel Farley Granger protagonista in ben due film di Hitchcock, Nodo alla gola, 1948, e L’altro uomo, 1951, e nel celebre La donna del bandito di Nicholas Ray, 1948) che vorrebbe sterminare un gruppo di mansueti agricoltori mormoni per insediarsi nella valle da essi occupata, installando la sua mandria di cavalli. La storia è tutta qui – c’è anche una piccola parentesi amorosa di Trinità con due angeliche ragazze del gruppo degli agricoltori – ed è proprio l’estrema semplicità, caratteristica sempre presente nel cinema di Barboni, che ha decretato il clamoroso successo del film, ad oggi ritenuto un classico del cinema italiano. Gli occhi di vetro, splendenti di Hill e quelli burberi e socchiusi di Spencer bucano lo schermo dando vita ad uno dei più riusciti divertissement mai realizzati, ancora ineguagliato per la capacità di intrattenere il pubblico. Un film che è definitivamente consegnato alla storia più significativa della nostra cinematografia.
Luca Biscontini
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