Stasera in tv su Cine 34 alle 01,00 Sette note in nero, un film del 1977, diretto da Lucio Fulci. L’idea iniziale del film era un riadattamento al romanzo Terapia mortale di Vieri Razzini, ma il regista, in collaborazione con Roberto Gianviti, non trovando sbocchi sulla sceneggiatura, decise di modificarla con l’aiuto di Dardano Sacchetti. Il film è uscito nelle sale italiane il 10 Agosto 1977, negli Stati Uniti (Seven Notes in Black, anche come Murder to the Tune of the Seven Black Notes) nel marzo del 1979 e in Francia (L’emmurée vivante) il 4 marzo 1981. Sette note in nero ha incassato complessivamente 594.648.345 lire a livello nazionale. La colonna sonora è stata composta dal trio Frizzi, Bixio e Tempera. Quentin Tarantino ha omaggiato il film nel suo Kill Bill Vol. 1, utilizzando il tema principale della colonna sonora, nella scena del risveglio della sposa, interpretata da Uma Thurman. Con Jennifer O’Neill, Marc Porel, Jenny Tamburi, Gabriele Ferzetti, Gianni Garko.
Trama
Fin da bambina Virginia ha avuto delle visioni: ha previsto per esempio il suicidio della madre. Ora, fresca sposa di Francesco Ducci, “vede” l’omicidio di una donna murata nella villa del marito. Questi finisce dapprima in carcere poi, scagionato, esce, ma l’omicidio previsto da Virginia deve ancora accadere.
È davvero difficile stilare una classifica dei film di Luci Fulci, regista assai prolifico che ha spaziato in tutti i generi, eppure dopo aver fruito del raffinato e visionario Sette note in nero viene voglia di eleggerlo come una delle migliori pellicole del cineasta romano. Non solo tutto funziona egregiamente, come un perfetto meccanismo, ma l’accuratezza della forma, unita a una certa sobrietà, offre allo spettatore un’esperienza sensoriale appagante – grazie al lavoro di scrittura di Fulci, assieme al veterano Dardano Sacchetti e a Roberto Gianviti -, laddove le visioni della protagonista (un’intensa Jennifer O’Neill, che era reduce, niente meno, da L’innocente di Luchino Visconti, 1976) determinano una rielaborazione della dimensione cronologia del tempo, in cui passato e futuro si fondono in un’indiscernibilità che spariglia le carte in tavola, obbligando chi guarda ad abbandonarsi a un flusso che disorienta e che, al tempo stesso, cattura l’attenzione fino all’ultimo secondo della storia messa in scena.
Virginia (O’Neill) sin da bambina possiede una spiccata sensibilità che le permette di percepire il verificarsi di cruenti fatti (il film inizia con la morte della madre che si getta da una scogliera in un luogo non meglio precisato dell’Inghilterra nel 1959), e dopo molti anni questa preziosa e angosciante facoltà torna a turbarla, giacché, durante il viaggio di ritorno da un aeroporto dove aveva accompagnato il marito (Gianni Garko), viene assalita dalle immagini di un delitto che si compie in un tempo e in uno spazio imprecisati. La donna, ovviamente, non può, a quel punto, far a meno di investigare per cercare di capire cosa davvero è accaduto, iniziando una pericolosa indagine che la porta a scoprire cose inquietanti.
Ma ciò che è davvero interessante nel film di Fulci è, come si è premesso, l’improvviso rovesciamento della consequenzialità causale, poiché quello che all’inizio sembrava essere un delitto commesso nel passato successivamente si rivela ascrivibile al futuro e, dunque, i protagonisti – e noi con loro – sono costretti a modificare in corsa la percezione del tempo, aprendo un varco su una dimensione estatica che riformula completamente le coordinate della ricerca messa in atto. Lo spettatore allucina insieme a Virginia e con lei vive l’improvviso cambiamento del ‘senso di marcia’, operando, dunque, una sorta di rielaborazione mentale, attraverso cui rileggere quanto aveva fino a quel momento visionato. C’è nel film di Fulci una ‘trasfigurazione’ del tempo e del senso, i corpi perdono quasi la loro materialità, diventano interscambiabili e, quindi, anche il concetto d’identità viene messo fortemente in discussione, perché si mina l’ordine simbolico in cui è saldamente inserito. Gli spazi si sovrappongono in una specie di raddoppiamento che, è bene sottolinearlo, anziché produrre un effetto di ri-presentazione (una ridondanza) permette di retrocedere dalla rappresentazione alla presentazione, eliminando tutto ciò che costituisce un appiglio alla presa della ragione. Il montaggio (Ornella Micheli) torna a incarnare l’essenza principale del dispositivo cinematografico, operando un superamento dei limiti del supporto fisico (pellicola), facendo segno a un fuori campo assoluto che non cessa di riverberare su ogni fotogramma.
Queste osservazioni sono sufficienti a decretare l’enorme valore di Sette note in nero (non si tratta, in tal caso, di considerarlo a posteriori, come di solito avviene, un cult), ma alla bontà di cotante premesse si deve aggiungere l’abilità indiscutibile della regia di Lucio Fulci, che davvero offre allo spettatore un’opera perfetta nei tempi, nella costruzione delle inquadrature, nella dialettica interna al film (che poi cede magicamente il passo a un ‘piano d’immanenza’ inaspettato). Tutto si muove con precisione millimetrica, ma, ed è questo il lato eccezionale del film, all’improvviso la cronologia muta in una sincronia spiazzante, ribaltando, rovesciando e, infine, trasfigurando quanto è passato sullo schermo. Per una volta chi scrive si sente di aderire senza riserva alla ‘setta’ degli adoratori di Fulci, condividendo con essi una sconfinata ammirazione per un film che necessita un’attentissima rivisitazione.
Luca Biscontini
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