Stasera in tv su Rai Movie alle 23 L’imbalsamatore di Matteo Garrone

Stasera in tv su Rai Movie alle 23 L’imbalsamatore, un film del 2002 diretto da Matteo Garrone, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al 55º Festival di Cannes. Il film riprende la vicenda di cronaca romana del “nano di Termini” Domenico Semeraro, un tassidermista omosessuale, ucciso dal suo protégé, Armando Lovaglio, nel 1990. Gli attori scelti dal regista per l’interpretazione dei tre personaggi principali sono Ernesto Mahieux, che nei panni di Peppino ha vinto il David di Donatello per il miglior attore non protagonista, Valerio Foglia Manzillo, ex modello e al debutto nel cinema nel ruolo di Valerio, e Elisabetta Rocchetti nel ruolo di Deborah, fidanzata di Valerio. Il film è stato girato al Villaggio Coppola, una frazione di Castel Volturno nota per essere stata costruita in modo completamente abusivo e Cremona. Le musiche sono state affidate alla Banda Osiris, e la colonna sonora è stata pubblicata in L’imbalsamatore, quarto album del gruppo musicale vercellese.

Trama
Peppino è di piccolissima statura e fa il tassidermista in una località del litorale casertano. Quando incontra il giovane Valerio, fa di tutto per prenderlo a lavorare con sé, stringendo con lui un rapporto sempre più ambiguo. L’equilibrio fra i due viene rotto da Deborah, una ragazza licenziata da un’officina meccanica.

Rivedere dopo molti anni L’imbalsamatore, film che pose Matteo Garrone all’attenzione del grande pubblico, conferma la sensazione che chi scrive ha sempre avvertito nei confronti del talentuoso regista, ovvero che gli siano assolutamente congeniali storie in cui prendono forma mondi marginali, avvinti dalle tenebre, torbidi, ove è interdetta la penetrazione anche di un solo raggio di luce capace di fornire un bagliore di speranza. Con tale considerazione non si vuole certo affermare alcunché sulla personalità dell’uomo, piuttosto delineare un immaginario che il cineasta è capace di maneggiare con sicurezza e grandissima efficacia. L’unico film in cui, infatti, si concesse una parentesi (fantasy), Il racconto dei racconti, seppur senz’altro interessante, tradiva alcune forzature, ossia la volontà, più che il desiderio, di realizzare qualcosa di non totalmente autentico. Con Dogman, per fortuna, si è verificato un felice ritorno alle origini e i grandi risultati ottenuti dimostrano che la tesi fin qui esposta non è peregrina.

Garrone, poi, è abilissimo nello scegliere gli interpreti più adatti a incarnare i suoi personaggi, ogni volta assai incisivi, sempre in grado di perturbare lo spettatore: Vitaliano Trevisan, Ernesto Mahieux, Aniello Arena e, infine, il dolce e terribile Marcello Fonte, giustamente ricoperto di premi. Anche ne L’imbalsamatore (così come in Dogman) il regista prese spunto da un caso di cronaca “nerissima”, ossia la cosiddetta vicenda romana del “nano di Termini” Domenico Semeraro, un tassidermista omosessuale assassinato da una coppia di fidanzati cui aveva imposto un torbido menage a trois: una storia miserabile, tristissima, in cui a farla da padrona era l’ambiguità, una doppiezza rivoltante in cui carnefice e vittime erano legati, in qualche modo, da un rapporto di malcelata complicità, circostanza che fece sì che la situazione precipitasse in un funestissimo epilogo.

Ne L’imbalsamatore, il regista ci conduce in un mondo liminale, un sottomondo, verrebbe da dire, dominato da ancestrali rapporti di forza, in cui violenza, morte e solitudine scandiscono esistenze attraversate da un soffio gelido che congela la vita interiore, riducendo i personaggi a marionette inanimate, in balia di una ferocia che s’illudono di gestire ma in realtà subiscono. La desolazione dei paesaggi periferici di un Sud deprimente fornisce un potentissimo valore aggiunto alla narrazione, laddove i personaggi, e con essi gli spettatori, sprofondano in un abisso di tenebre da cui è impossibile risalire. I campi lunghi sul lungomare grigissimo di un territorio al collasso e gli edifici-lager dove è stipata un’umanità esclusa, destinata a colludere con la malavita, forniscono la cifra stilistico-emotiva del penetrante sguardo di Garrone, esemplare nel fare emergere la malinconia invincibile di ciò che, solitamente, è tenuto saldamente fuori campo (in particolare nel cinema patinato della commediola nazionale degli ultimi vent’anni). Ciò a cui il regista sembra maggiormente interessato è, infatti, testimoniare quanto l’essere umano contenga un’ineliminabile quota di orrore che, quantunque provochi sdegno e turbamento, non può essere estirpata fino in fondo: quel nulla che ci costituisce ontologicamente e che ci attraversa, essendo l’uomo un essere finito, così come era stato lucidamente segnalato da Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla.

La splendida fotografia di Marco Onorato, le musiche ipnotiche della Banda Osiris e il montaggio sempre opportuno di Marco Spoletini donano al film un’omogeneità e un timbro emotivo che, dopo quindici anni, sembrano ancora più efficaci di allora. Ottime, manco a dirlo, le prestazione degli interpreti: su tutti, ovviamente, giganteggia Mahieux (David di Donatello), ma non da meno sono Elisabetta Rocchetti (Globo d’oro), Valerio Foglia e Marcella Leonardi.

 

 

Luca Biscontini