Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 8½ di Federico Fellini

Stasera in tv su Rai Storia alle 21,10 , un film del 1963 co-scritto e diretto da Federico Fellini. È considerato uno dei capolavori del regista e una delle migliori pellicole cinematografiche di tutti i tempi, fonte d’ispirazione per generazioni di cineasti. Scritto da Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi, con la fotografia di Gianni Di Venanzo, il montaggio di Leo Catozzo, le scenografie e i costumi di Piero Gherardi e le musiche di Nino Rota, è interpretato da Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, Sandra Milo, Claudia Cardinale, Rossella Falk, Barbara Steele, Mario Pisu, Madeleine Lebeau, Caterina Boratto, Eddra Gale, Annibale Ninchi e Giuditta Rissone. Mastroianni non fu comunque la primissima scelta, all’inizio infatti Fellini pensò a Laurence Olivier o Charlie Chaplin. Anche per avere Sandra Milo, Fellini dovette lottare, perché il marito di lei si opponeva al suo ritorno al cinema, dopo la delusione del film Vanina Vanini di Roberto Rossellini. Rimasero invece fin dall’inizio Anouk Aimée, già presente ne La dolce vita, e Claudia Cardinale, che per la prima volta non venne doppiata e che stava lavorando contemporaneamente anche a Il Gattopardo.

Trama
Guido, un regista cinematografico nel pieno dei quarant’anni, trascorre un periodo di riposo in una stazione termale. La pausa forzata si risolve in una specie di bilancio generale della sua esistenza: un bilancio fatto di rapporti con personaggi reali, e di fantasticherie, ricordi, sogni, che si inseriscono all’improvviso negli avvenimenti concreti delle sue giornate e delle sue notti. Dei suoi sogni fanno parte il padre e la madre, morti da anni, con cui discorre teneramente, come fossero lì con lui. La paura della vecchiaia e della morte gli si rivelano attraverso immagini in cui Guido si vede morto mentre intorno la vita continua senza di lui e le ‘sue’ donne ritrovano il sorriso. E tutto questo non fa che rendere consapevole quello smarrimento che egli si portava dietro da anni e che le cure della esistenza quotidiana e del lavoro avevano in parte mascherato.

“Fellini mostra che un regista è prima di tutto un tizio che dalla mattina alla sera viene seccato da un mare di gente che gli pone domande alle quali non sa, non vuole o non può rispondere. La sua testa è piena di piccole idee divergenti, di impressioni, di sensazioni, di desideri nascenti e si pretende da lui che dia certezze, nomi precisi, cifre esatte, indicazioni di luogo e di tempo. Lo si può ammirare ovunque: lo scetticismo di sua cognata («Hallo, come sta il nostro venditore di fumo»), gli rivolta lo stomaco. Il solo mezzo per vendicarsi è di integrare di forza la cognata nelle sue fantasticherie erotiche, per esempio quella dell’harem in cui raggiungerà, tra le altre, una bella sconosciuta che noi spettatori abbiamo intravista al telefono nella hall dell’albergo ma che avremmo giurato che Mastroianni-Guido non avesse notata! Tutti i tormenti che possono distruggere le energie di un regista prima delle riprese sono qui accuratamente enumerati in questa cronaca che sta alla preparazione di un film come Rififi sta alla elaborazione di un colpo.” (François Truffaut, 1963)

8 ½ colloca il regista al massimo livello degli autori visionari del cinema, a fianco di Orson Welles e Buñuel, Kurosawa e Bergman: Fellini vi definisce e raggiunge una struttura ideale, organizza i vari piani in un perfetto equilibrio interno, li scompone fino a portarli in condizioni di caos e li riordina con mezzi quasi taumaturgici. Il bianco e nero si distende in vaste campiture, diviene una specie di supercromatismo. I moduli, le cifre, i simboli, le scelte iconografiche e iconologiche, sono fissati al livello di più intensa rappresentatività e capacità significante. Il film è un viaggio nel corpo, un contatto ravvicinato con la materialità delle sensazioni, dei piaceri, delle emozioni tattili, visive, sonore e del gusto.” (Gian Piero Brunetta, “Cent’anni di cinema italiano”, Laterza, 1991).

“È il film di un film (il sogno di un sogno?), la storia di un regista che non riesce a fare un film. Il suo vero contenuto è la fitta trama dei rapporti e dei legami del protagonista: con la moglie, l’amante, l’ambiente di lavoro, gli estranei. Dopo aver raccontato lo smarrimento del suo personaggio, la nausea, la pena, l’angoscia con cui sente quei rapporti, lo sforzo per mettervi ordine e scoprirvi un senso, dove lo fa approdare? «L’enfer c’est les autres», dice Sartre. Fellini ribalta l’affermazione: la vita sono gli altri, i vivi e i morti, gli esseri reali e le creature della fantasia; bisogna accettarli tutti, con amore, gratitudine e solidarietà. La sua è la conclusione di un artista, di uno show-man che s’è costantemente difeso dall’intellettualismo con la natura sanguigna del suo istinto testimone e complice.” (Morando Morandini, in “Storia del cinema” a cura di Adelio Ferrero, Marsilio 1978).

“Fellini non si è mai abbandonato alle geometriche e un po’ astratte divagazioni di Resnais in Marienbad, né a quel crepuscolarismo onirico così caro a certo Espressionismo tedesco, ma si è, al contrario, tenuto volutamente nell’ambito di una narrazione in cui tutto scaturisce «naturalmente» di fronte allo spettatore con una chiarezza non inficiata nemmeno dalla preziosa ridondanza dell’immagine e dalla corrusca varietà dei particolari secondari. Ha posto il protagonista al centro della azione, ha precisato il suo stato d’animo, ha chiarito passo passo la sua evoluzione, e i modi di questa evoluzione, e ha chiesto quindi allo spettatore non di decifrare un enigma, ma di abbandonarsi alle sensazioni emotive, liriche, drammatiche che lo spettacolo ad ogni istante doviziosamente gli suggerisce, rifiutando recisamente il filosofema pirandelliano (dopo i Sei personaggi in cerca d’autore era facile giocherellare con un «Autore in cerca dei suoi personaggi») e chiedendo solo alla poesia più dolce, più umana, più schietta di far sentire, udibile e comprensibile da tutti, la sua limpidissima voce. Con uno stile che, solo paragonabile per certo suo lirismo ai momenti più compiuti de La strada, supera di gran lunga La dolce vita per maturità espressiva, per ricchezza visiva, per corposità di ritmo, per sapienza linguistica e tecnica. (Gian Luigi Rondi, “Il Tempo”, 15 febbraio 1963).

La dolce vita era la resa fenomenologica del mondo esterno al regista; 8 ½ è uno svariante auto-da-fè, un grido di dolore e di vittoria. Fantasia, intelligenza gusto e coraggio intellettuale si uniscono nel comporre un’opera sempre gustosa, spesso perfetta e qualche volta geniale. Trasformista portentoso, manierista di eccezionale virtù, Fellini ha operato un rovesciamento di fronte: non è più terrestre ma infernale, non più solare ma notturno. Ha raggiunto una capacità compositiva da sbalordire: tutto ciò che tocca diventa cinema, vita sognata e quindi realizzata nelle immagini, ombre di una «rêverie» che durerà, ne siamo certi, per lunghi anni ancora. Al solito, ha adoperato gli interpreti con sorridente maestria: Marcello Mastroianni è Anselmi, ma è anche Fellini. La bravura dell’interprete e l’affetto del discepolo-amico hanno giovato a una recitazione tutta di finezze, inganni e abbandoni. Anouk Aimée ha classe, come Rossella Falk. Per Sandra Milo non c’è che da ricordare quel vecchio titolo teatrale: una cosa di carne. Essa esiste, con semplicità. Non le si chiedeva altro. Bravi tutti gli altri, dal godibilissimo Alberti alla soave Claudia Cardinale. Ora, scoperchiate le pentole Fellini è uscito di casa e s’è tirato dietro il can-cello, chiudendolo accuratamente. Attenzione, Federico: non si può più tornare indietro.” (Pietro Bianchi, “Il Giorno”, 16 febbraio 1963).

“A chi gli chiede la trama di 8 ½, Fellini risponde: ‘È la storia di un film che non ho fatto’. In realtà la trama del film è praticamente irraccontabile: si tratta di una specie di Helzapopping intellettuale e psicologico. In un primo tempo il film doveva, avere come protagonista un uomo sui 45 anni giunto a un punto critico delle sue esperienze umane: poi, nell’apprestarsi a girare le prime scene, Federico Fellini s’è accorto che al ‘punto critico’ c’era lui: non sapeva come andare avanti. Allora ha cambiato idea: il film sarebbe stato la sua stessa storia, la: storia delle sue perplessità di regista.” (Callisto Cosulich, “ABC”, febbraio 1963).

 

 

Luca Biscontini