Stasera in tv Umberto D. di Vittorio De Sica

Stasera in tv su Cine34 alle 22,45 Umberto D., un film del 1952 diretto da Vittorio De Sica. Nonostante sia considerato da buona parte della critica una delle migliori opere cinematografiche di De Sica e uno dei capolavori del Neorealismo, Umberto D. fu, a livello di pubblico, uno dei meno compresi; quando uscì nelle sale cinematografiche, incontrò non pochi ostacoli perché come con il precedente Ladri di biciclette, ci fu chi si lamentò per il fatto che vi veniva mostrata la realtà con drammatico realismo. La pellicola è un tributo del regista al padre, Umberto De Sica, con cui aveva un rapporto molto forte. Prodotto da Giuseppe Amato, Angelo Rizzoli e Vittorio De Sica, scritto e sceneggiato da Cesare Zavattini, con la fotografia di G. R. Aldo, il montaggio di Eraldo Da Roma, le scenografie di Virgilio Marchi e le musiche di Alessandro Cicognini, Umberto D. è  interpretato da Carlo Battisti, Maria Pia Casilio, Memmo Carotenuto, Lina Gennari, Alberto Albani Barbieri.

Trama
Un anziano funzionario ministeriale in pensione non se la passa particolarmente bene dal punto di vista economico e da quello degli affetti. Vive infatti solo, con un cane e la domestica. Le scarse risorse economiche non gli consentono più uno stile di vita consono alla sua cultura e al suo decoro ed è costantemente in ritardo con il pagamento della pigione, come l’arcigna padrona di casa gli sottolinea spesso. In un soprassalto di dignità decide allora di togliersi la vita per non essere più di peso agli altri: sarà però proprio il suo cane a riconciliarlo involontariamente con il mondo.

Così come il capolavoro supremo del Neorealismo Ladri di biciclette (1948), Umberto D. (1952), altra pietra miliare della nostra cinematografia, ancora una volta diretto da Vittorio De Sica e scritto da Cesare Zavattini, fu accolto all’epoca della sua uscita nelle sale con non poche riserve, laddove in esso si mostrava la vita miserabile di un uomo anziano, un pensionato, il quale, nonostante una vita di onesto lavoro (era stato un funzionario del ministero), si ritrovava in uno stato di penosa indigenza che lo costringeva a compiere le più umilianti azioni pur di sbarcare il lunario. Come molti anni dopo fu efficacemente denunciato da Ettore Scola in C’eravamo tanto amati, così anche per Umberto D. la necessità della testimonianza venne ritenuta subalterna rispetto al bisogno di fornire al mondo un’immagine brillante del nostro paese. Celebri rimasero le parole dell’allora sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega agli spettacoli Giulio Andreotti: «Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria».

Con la fotografia drammatica di Aldo Graziati, le musiche strazianti del maestro Alessandro Cicognini e la figura malinconicissima di Carlo Battisti, un professore di glottologia all’Università di Firenze che si rese disponibile per interpretare il ruolo del protagonista, Umberto Domenico Ferrari, Umberto D., a distanza di più di sessant’anni, non cessa di suscitare la più viva inquietudine nello spettatore, poiché la ‘rispettabilità’ dell’uomo di cui si mettono in scena le vicissitudini rende ancor più immediato e naturale il processo di immedesimazione. È uno come gli altri, anzi, per certi versi dotato di più spiccate virtù, quali la bonarietà, l’educazione e il rispetto per il prossimo. Vederlo così drammaticamente esposto alle vessazioni dell’umanità bigotta – e spietata – dell’Italia conformista dell’inizio degli anni Cinquanta rattrista non poco, perché la situazione di difficoltà economica descritta era ed è un’eventualità che poteva (e potrebbe) verificarsi per qualunque cittadino. L’assenza dello Stato, che erogava (ed eroga) pensioni non sufficienti al sostentamento e, soprattutto, la mancanza di una coesione sociale minima capace di attenuare, per lo meno sul piano morale, le difficoltà di uomo meritevole di un ben più felice destino, rendono il film di Vittorio De Sica di un’attualità sconvolgente, il che dimostra ancor più quanto fosse necessario, checché ne pensassero gli allora rappresentati del governo.

Ancora una volta Cesare Zavattini seppe costruire una storia esemplare attraverso cui richiamare le coscienze al bisogno di ripensare la società del tempo, in direzione di una maggiore solidarietà ed equità, esigenza che caratterizzò la maggior parte di tutta la sua opera cinematografica. Dopo aver scritto il soggetto di Bellissima (1951) di Luchino Visconti, film in cui, seppur con i toni della commedia, era mostrata la miseria di una fascia della popolazione che ambiva a condizioni di vita migliori, lo sceneggiatore, giornalista, commediografo, scrittore, poeta e pittore italiano di Luzzara proseguì nel suo progetto di realizzazione di un cinema di impegno civile in grado di scuotere lo spettatore attraverso la capacità di persuasione delle immagini in movimento. In questo senso, il cinema di Zavattini incarnò esemplarmente il celebre motto contenuto nella parte finale del decisivo saggio di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui si contrapponeva al rischio dell’estetizzazione della politica la ben più proficua possibilità della politicizzazione dell’arte. Un cinema che non costituisse solo un’occasione di svago ed evasione per le masse, quanto piuttosto un efficace strumento per tentare di far sorgere, o aumentare, la consapevolezza del pubblico, affinandone lo spirito critico e stimolandone la lucidità.

 

 

Luca Biscontini