STORIA DEL CINEMA WESTERN ALL’ITALIANA: “KEOMA”

Keoma giunge sul crepuscolo di una delle più felici (e relativamente longeve) stagioni della cinematografia nostrana che in quel 1975 poteva vantare qualcosa come circa 500 titoli prodotti in un solo decennio, e tuttavia riesce ancora, incredibilmente, a dire qualcosa di bello e (forse) di nuovo sull’universo dello spaghetti western. Enzo G. Castellari ha innanzitutto il coraggio e la spregiudicatezza di reinventare l’enormità del Franco Nero di Django quando la pellicola di Sergio Corbucci aveva già inciso intorno al lemurico eroe, profondamente e con caratteri sanguigni, un’autentica mitografia della disperazione (non è un caso di facile astrusità il fatto che in alcuni paesi stranieri Keoma sarà presentato col titolo Django’s Great Return).
Un soggetto di Luigi Montefiori (il noto attore George Eastman di tante pellicole di genere, dai Cani arrabbiati di Mario Bava all’Antropophagus di Massaccesi) piuttosto vago e una sceneggiatura ottumane (dello stesso Montefiori, Castellari, Mino Roli e Nico Ducci) che bascula tra incompiutezza e confusione costringono a focalizzare l’attenzione in primis sul personaggio, che da solo diviene chiave di volta dell’impalcatura narrativa, anche se poi il fascino di Keoma risiede tutto nell’essere un visionario racconto per gli occhi. La genialità della pellicola è data da una serie di elementi che dialogano armoniosamente tra loro e si possono ricondurre tutti ad un unico asse portante dell’architettura filmica: una riuscita coniugazione tra un registro espressivo “sublime” e uno “popolare”.

Keoma è un film che ama mescolare le carte del western lato sensu giocandole su tavoli estetici di volta in volta cangianti, dagli stilemi peckinpahiani (i frequenti ralenti che sospendono il tempo diegetico consegnandolo all’enfasi lirica della rappresentazione), a quelli della frammentazione ritmico-visiva leoniana (i primissimi piani, i dettagli, i flashback), si cerca di rendere lo spazio rappresentativo insistendo su una dialettica tra azione e meditazione tentando di costruire manieristicamente un discorso in cui l’assolutamente falso (il cinema in generale e il western casereccio in particolare che memore della classicità hollywoodiana ne mima le forme riproducendosi illimitatamente) ambisce a diventare verosimile (la pretesa di realismo conferita dalle sequenze di flagrante brutalità e dal triviale turpiloquio). Castellari sembra quasi inseguire il fantasma wagneriano dell’opera d’arte totale e totalizzante puntando sul potere assoluto (della fascinazione) dell’immagine dipingendo scenari onirici e autunnali nei quali possano convivere visivamente la desolata e materica polverosità degli oggetti dell’insieme e la metafisica delle atmosfere evocate attraverso cui Castellari non rinuncia a dipanare una simbologia mistico-esoterica a partire, come si accennava, proprio dalla figura cristologico-messianica di Keoma che intraprende un lungo viaggio iniziatico per portare la libertà (nella lingua dei pellerossa questo significa Keoma, il suo nemen-omen) alla gente del villaggio natale sconfiggendo anche la morte.

Splendide davvero le invenzioni di Castellari di un Franco Nero disegnato fumettisticamente come un novello messia nazareno (che in una delle sequenze più celebri e più suggestive viene crocefisso a una ruota e deriso dai torturatori) con un look che attinge ponderosamente dall’iconografia hippie del Jesus Christ Superstar di Price e Lloyd Webber, che reca con sé, metaforicamente, la vita (una donna incinta salvata dalle grinfie dei villains di turno) e la morte (una misteriosa vecchia che si aggira per tutto il film tirando affanosamente dietro di sé un carretto che prefigura simbolicamente il dolore dell’esistenza). L’insistita ipertrofia di alcune sequenze non pregiudica l’insieme di un film che segna melanconicamente l’autunno di un genere.

 

Mauro F. Giorgio
Fonte www.spietati.it