Il mondo dello spettacolo scandagliato attraverso l’ottica della provincia, ritenuta quasi all’unanimità l’emblema di un’inappellabile limitatezza di orizzonte, ed ergo la causa dello scacco subìto da chi pensa in grande ma agisce in ambiti ristretti ai limiti dell’impietoso ridicolo involontario, a differenza del compianto e genuino umorista Giovannino Guareschi, fautore dell’egemonia morale dei mondi piccoli incentrati sul senso d’appartenenza, impregna Storia di Ray (o l’asino che vola).
La tenuta stilistica ed espressiva dispiegata dal versatile regista Giuseppe Di Renzo rifugge sin dall’incipit dai limiti dei documentari che, non potendo usufruire del lavoro degli attori su se stessi per esibire empatici punti d’identità in grado di stimolare il processo d’identificazione degli spettatori, pagano pegno all’asciuttezza d’accenti. Al cui posto prende piede la scelta di pungolare l’artista di provincia Sandro Micolucci.
Il Sandro Micolucci noto come Ray Sugar Sandro nei locali del centro-sud dove interpreta i brani musicali dei cantanti autoctoni famosi in tutta Italia col rischio di prendere qualche stecca – portando a galla la calata abruzzese, l’autoconoscenza dell’uomo, gli input psicofisici dello show man. Intento ad allargare gli angusti spazi concessigli, con i classici quattro gatti nelle vesti del pubblico da coinvolgere a mestiere o la gente di piazza, accorsa alla pittoresca esibizione per suggellare il tempo libero, sulla scorta dell’incisivo slancio dell’inconfessata speranza. Sembra quasi d’avvertire la mano in cabina di produzione del sensibile ed estroso Giuliano Giacomelli. Che nel realizzare Profondo seppe redigere e dirigere un apologo sull’ansia di riaffermazione scandita dall’aura contemplativa congiunta alle riprese subacquee, a caccia del demone marino in agguato lungo i fondali sabbiosi a largo di Pesaro, e dal cortocircuito onirico in zona Cesarini. Così la crudezza oggettiva, riscontrabile nell’assenza delle linee di pensiero e azione seguite dai giochi fisionomici di prim’ordine per catturare l’attenzione delle platee meno interessate al valore drammatico ed evocativo della scrittura per immagini, va a braccetto con l’opportuno carattere d’ingegno creativo. Senza mai veleggiare nella superficie degli strafalcioni verbali dell’outsider desideroso di accedere al pantheon degli eroi mediatici avvezzi a ghermire il cuore dei fan sui palchi di serie A. Quelli di serie B e C, se non addirittura dell’ex eccellenza, sono ghermiti dai movimenti di macchina, dai pedinamenti d’origine zavattiniana, dalle scelte luministiche predisposte insieme al direttore della fotografia Paride Fusoni.
I mutamenti in merito alle luci dell’ambìta ribalta, smorzate nelle sale prove con le scritte sui muri in cui gli incerti aforismi di Sugar Ray Sandro (“Preferisco non piacere ma essere che non essere e piacere!”) devono cedere alla greve praticità dei collaboratori interessati solo ed esclusivamente ad andare sodo, non certo in profondità, svelano, al contrario, la voluttà di piacere. Di persuadere appieno. Di sedurre il prossimo. Al pari dei profili di Venere che gli svolazzano attorno coi tacchi dodici come api sul miele. Mentre l’effigie dei tour in automobile, degli alberghi, delle alcove, mostrate spesso di sghembo, tradisce la finzione dell’artificio, stabilito ex ante a scapito dell’idoneo timbro d’autenticità, l’inquadratura delle oasi di quiete, lontane dal bisogno di stare sul pezzo, curando il corpo, i muscoli, nella scimmiottatura del carismatico Jim Morrison, coglie sul serio uno stream of consciousness scevro dai cascami programmatici attinti alla bell’e meglio ai modelli letterari. L’antidoto al copia e incolla dei nani sulle spalle dei giganti risiede proprio nella sconcertante sincerità afferrata palmo a palmo da Di Renzo svelando le pretese, la noia di piombo delle inani riletture, i tormentoni di un loser con l’anima del vincente. Giacché consapevole che l’ostinazione alla fine viene premiata. L’intenso ritratto all’insegna dell’indefessa caparbietà, venata di malinconia, nonostante l’impasse d’una suspense ascetica ed errabonda che sembra in parecchi frangenti incautamente costruita a tavolino, sopperisce all’insalubre sensazione dell’acume schematico, deleterio per il ragguaglio umano e sociale della certificazione obiettiva, con un’insolita lucidità d’impianto. Frutto d’una tempra autoriale trasmessa dal produttore alla regìa. Per divulgare in chiaroscuro gli alti e i bassi dell’esistenza notturna. A bordo della Ferrari Testarossa. Nei concerti dal vivo. Nelle reazioni mimiche. Nel tambureggiante tran tran quotidiano. Nelle distorsioni dei palpiti del trasporto commosso. Celato a stento dagli esercizi virili per gli addominali alla Rocky Balboa.
Le banalità scintillanti della propaganda, l’attitudine a battere la grancassa col microfono, i brindisi pronunciati per vincere la noia di piombo, le gare di velocità nel campo di atletica leggera, nei luoghi dell’anima battuti per inseguire il successo, l’incanto dell’illusorio palco, il disincanto dei risvegli, i riti mondani, non esenti dagli scivoloni nel kitsch, palesano la penuria della tensione formale ad appannaggio dei maestri dell’apparenza. Sul versante della sostanza dei contenuti emersi nell’analisi degli irregolari stati d’animo, che mettono in risalto un’indole incapace di sottrarsi alle lusinghe passeggere, per poi costruire castelli di carta, Storia di Ray (o l’asino che vola) non concede, invece, banalità. Né incanala gli affondi amari in un quadro colmo di trite prospettive sarcastiche. Che lascerebbero freddi pure gli scaltriti cinefili abituati ad anteporre il cervello al cuore. Nelle battute finali, anziché trascinarci nell’irrealtà, dopo aver inseguito la spontaneità di tratto nelle cadenze gravi che fungono da contraltare all’indulgente tasso di emotività affidato alle canzonette abbozzate dietro le quinte in attesa del contatto con la gente, le facoltà magiche della fantasia permettono alle note intimiste di spiccare il volo. Sublimando nell’epico, nella palingenesi, nel rimando, che occhieggia al circo felliniano e all’asino dell’erudito Robert Bresson in Au hasard Balthazar, Storia di Ray (o l’asino che vola) raggiunge un’inaspettata vetta poetica. Aliena sia ai soliti colpi di gomito degli effetti speciali sia all’aridità delle vicende nude e crude. Sprovviste dei sogni dell’inconscio.
Massimiliano Serriello
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