Sundown: un dramma messicano con Tim Roth e Charlotte Gainsbourg

Presentato in concorso alla settantottesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia Sundown è un film scritto, diretto e montato da Michel Franco.

Il regista messicano, tra l’altro un quasi abituale al festival di Cannes, propone un dramma ricco (e allo stesso tempo povero) di una tensione calma, sfiorando volutamente il piatto.

Davanti alla camera di ripresa si focalizzano i fratelli Neil e Alice Bennett (rispettivamente interpretati da Tim Roth e Charlotte Gainsbourg), ereditieri di una importante industria inglese della carne. La coppia, unita forse dal solo legame parentale, sta soggiornando in un lussuoso albergo di Acapulco, in Messico, per una vacanza al mare. Insieme a loro ci sono i due figli della donna. Una chiamata improvvisa annuncia la morte della madre dei due, interrompendo drasticamente il presunto idilliaco momento di relax. Le reazioni, tuttavia, si paleseranno in maniera opposta: Alice riparte immediatamente coi figli per giungere al capezzale della defunta; il fratello, invece, fingendo lo smarrimento del passaporto, resta in Messico, prende una stanza in un albergo fatiscente e comincia a spendere le sue giornate in riva al mare tra bottiglie di birra e le avventure amorose consumate con una donna del posto. L’ambigua divisione dei due fratelli si rispecchia nella divisione esistenziale dello stesso film, alla continua ricerca ed autoalimentazione delle differenze e contraddizioni sociali. Acapulco, teatro del lungometraggio, si mostra in tutte le sue assurde sfaccettature, dalla ricca e placata versione lussureggiante a quella malsana e trasandata della popolarità malavitosa, dove non è possibile stare sicuri nemmeno su una sedia a godersi il bagnasciuga che un colpo di pistola da regolamento di conti può improvvisamente sconvolgere la giornata (sotto gli occhi indifferenti e assurdamente abituati, da sottolineare).

Il senso di angoscia tinge tutto il film, sin dalle prime inquadrature, nonostante la calma degli attori, i pochi dialoghi, l’assenza di musiche e il sole accecante che batte sulle teste dei protagonisti, in particolare dell’apatico Neil. I raggi bruciano dentro, il senso di qualcosa che covi internamente è persistente. Il dramma in Sundown assume caratteristiche da thriller, ben prima che le vicende di trama impennino in una costante escalation di eventi drammatici, sempre raccontati però in forma blanda e silenziosamente rilassata. Un metodo registico d’autore che sembra stonare, ma che di fondo alimenta nello spettatore quel “dev’esserci dell’altro”. Ed effettivamente qualcosa ci sarà, al termine dei brevi ottanta minuti, seppur possa risultare abbastanza banale. Ci si trova dinnanzi ad un film negativo, nell’accezione empatica. Un costante senso di pessimismo va unidirezionalmente dallo schermo al fruitore. Tim Roth è una maschera indolente che nasconde bene le motivazioni che condizionano il suo personaggio verso una misteriosa indifferenza per ciò che accade, alla ricerca presumibile di una vita senza aspettative e senza responsabilità ulteriori, ereditate o no.

Neil raramente alza gli estremi delle labbra. Anche quando ammira la sua compagna di avventura, dormiente e svestita sul suo letto, lo sguardo languido del protagonista pare attraversarla, come sondasse altre sponde. Tutto ciò avviene senza la minima intenzione di elargire spiegazioni al prossimo. Il problema si pone quando la regia stessa inizia a perdere i colpi, lasciando una mancanza di spiegazioni. Franco si rintana nel porto franco (perdonateci il gioco di parole) del film d’autore, quel misterioso angolo cinematografico in cui sembra che con poche parole e pochi movimenti di macchina si possa dire tutto. E forse è anche vero, ma fatto in un certo modo. In questo caso pare manchi qualcosa, nonostante un lavoro sufficientemente professionale. Le immagini allegoriche e simboliche di pesci boccheggianti o le apparizioni di maiali squartati davanti gli occhi di Bennett uomo sono intuizioni interessanti che, però, restano tentativi blandi di dare un qualcosa in più, che attingono ad un cinema distante da quello che in definitiva confeziona il messicano. È proprio quel finale già accennato di Sundown, col sapore del “Ah, va be’ tutto qui”, che fa storcere il naso su quanto visto precedentemente, rendendolo interessante ma frenato. Le immagini non collimano con le probabili intenzioni registiche. La storia non approfondisce, mantenendo quello stesso piattume scelto per l’introduzione.

 

 

Alessandro Bonanni