Terni Pop Film Fest: Mondospettacolo incontra Francesco Maria Dominedò, regista de La banda dei tre

Attore attivo dagli anni Novanta, nonché regista, tra l’altro, del crime movie 5 (Cinque), Francesco Maria Dominedò è approdato presso il Terni Pop Film Fest – Festival del cinema popolare per presentare in anteprima la sua ultima fatica dietro la macchina da presa: La banda dei tre, la cui uscita nelle sale cinematografiche è prevista per la primavera del 2020.

Presenti al festival, noi di Mondospettacolo lo abbiamo incontrato per una piacevole chiacchierata.

 

Che tipo di film è La banda dei tre?

È un film che ha molte mescolanze, ma diciamo che è una commedia malavitosa. Le fonti d’ispirazione sono i film con Bud Spencer e Terence Hill e i poliziotteschi di Umberto Lenzi e Fernando Di Leo, oltre a qualcosa dei personaggi dei fumetti di Alan Ford e del gruppo TNT. È tratto da un romanzo di Carlo Callegari ed è la classica storia alla Point break, con un infiltrato che subisce un attentato e non può essere aiutato da persone che lo proteggono, ovvero la polizia. I colpevoli sono personaggi con cui, di conseguenza, diventa amico, ma dei quali non aggiungiamo altro. Alla fine scopre che i buoni non sono poi così buoni e che i cattivi non sono così cattivi.

 

In quale momento hai deciso di fare questo film?

È stato un amore a prima vista. Ero a spasso con il cane vicino casa mia e ho visto il libro nella vetrina di una libreria aperta da poco. Io cercavo un romanzo da trasporre in film e non mi andava di buttarmi sulle solite cose troppo realiste, volevo qualcosa di iper reale, qui c’erano questi tre personaggi che mi sono divertito come un matto a leggere. Tramite un social network ho contattato l’editore, l’ho raggiunto a Padova e abbiamo deciso che mi avrebbe dato i diritti per farne un film. Non è stato facile, in quanto ero talmente dentro il libro che per tirar fuori quella che poi è diventata la sceneggiatura effettiva sono dovuto andare a sottrazione. Perché il testo di Callegari è di trecentocinquanta pagine e, quindi, il primo script venuto fuori era per un film di circa tre ore, ho dovuto tagliare parecchio. Sacrificare delle cose mi dispiaceva, ma bisognava rendere la struttura narrativa adatta al film, anche perché nel libro il protagonista incontra la donna di cui si innamora dopo settanta pagine, mentre sullo schermo ciò deve accadere molto prima. Quindi, per esempio, d’accordo con l’autore ho cambiato un personaggio da alto, magro e tossico di eroina a piccolino, cicciottello e che sotto acido ha visto la Madonna entrando in perenne crisi mistica.

Anche qui, come in 5 (Cinque), affronti il tema della criminalità, ma in maniera ironica…

La cosa strana è che 5 (Cinque) nacque per caso, perché il produttore mi chiamò per farmi leggere un soggetto ispirato ad una storia vera accaduta negli anni Novanta. Nella mente del produttore doveva farlo un altro regista, ma gli dissi che nella storia c’erano degli elementi che secondo me potevano farla venire bene sullo schermo, e la cosa più strana è che in essa era ricorrente il giorno del mio compleanno, 17 Dicembre. La vicenda era ambientata il 17 Dicembre, così, quando gli ho detto che sono nato quel giorno, il produttore mi ha detto che il film avrei dovuto dirigerlo io. Nella storia vera erano più giovani i protagonisti, nel film li abbiamo accresciuti di età perché nasceva sulla scia di Romanzo criminale. I criminali, in un certo senso, sono personaggi simpatici. In 5 (Cinque) erano un gruppo di ragazzini che pensavano di fare una rapina e si trovavano dell’uranio arricchito sottratto alla mafia russa, una cosa che gli scoppiava tra le mani, grave; ne La banda dei tre, invece, abbiamo un infiltrato di polizia che fa finta di essere uno spacciatore di fumo per incastrare un nano che ha deciso di passare dallo spaccio della marijuana alla cocaina, non si tratta di gente che ha fatto cose tremende. Mi divertono i criminali, i personaggi al limite, i mostri, i delinquenti, gli schizzati, quelli sopra le righe (ride).

 

Sia da questo film che da altri lavori si capisce che dietro c’è un background riguardante il cinema di genere, con qualche strizzata d’occhio anche alle bizzarrie di Ken Russell e Alejandro Jodorowsky…

C’è di tutto, come ti dicevo da Fernando Di Leo a Bud Spencer, ma anche invenzioni di grafica. Mi hai citato Jodorowsky e Ken Russell, due registi che io adoro. Quando ero piccolo ho visto trentadue volte di seguito al cinema Lo chiamavano Trinità, ma contemporaneamente guardavo Tommy di Ken Russell. Io subisco il fascino della parte visiva dei film. Dei film poliziotteschi mi piaceva soprattutto il discorso dell’invenzione, dell’artigianalità, della necessità che fa virtù. Ne La banda dei tre non sono stati usati carrelli, avevo solo un ronin, sorta di stabilizzatore su tre assi, e la macchina da presa. Questo mi serviva sia per velocizzare, sia per non stare ore ad aspettare che si preparassero le scene sul set. Mi piace l’artigianato del cinema e volevo andare in tutto e per tutto in quella direzione. Poi ci sono alcune musiche ispirate a Milano calibro 9, io sono nato con il cinema della trasgressione di Nick Zedd o delle sperimentazioni che facevano tedeschi come Jörg Buttgereit negli anni Ottanta e Novanta. Ho anche realizzato nel 2004 un documentario che è stato bandito ovunque, in cui c’erano cose molto forti con performer che si infilzavano, si appendevano e si cucivano.

Quale è stata la scena più difficile da girare?

È stato un film in cui abbiamo corso e che ho potuto fare solo perché gli attori erano tutti bravi. L’inseguimento automobilistico è stato difficile perché abbiamo girato come si girava una volta, senza effetti digitali, con lo stunt Ottaviano Dell’Acqua, la camera messa davanti alla macchina e che si abbassava verso le ruote o si alzava. Faceva freddo e avevo un solo giorno per girarla, quando ne sarebbero occorsi almeno due e mezzo. La sparatoria nel bosco, invece, è stata più facile da girare. Gli unici effetti presenti nel film sono le presentazioni grafiche e i fumetti.

 

Quanto è importante, per te, che esista in Italia un festival di cinema popolare?

È importantissimo, innanzitutto perché oggi sembra che “pop” sia un termine che deve indicare qualcosa di bassa categoria. I Beatles erano pop, non mi sembra fossero musicisti di settima categoria. Noi ricordiamo forse i film di autori stranieri che hanno vinto duemila premi? Come mai ci ricordiamo L’armata Brancaleone, che, per quanto scritto, diretto e interpretato divinamente, era destinato al grande pubblico? Totò era considerato male. Il cinema pop è quello di tutti, per lo spettatore. Molti registi fanno cinema per due motivi: perché vi sono attrici belle o perché hanno un problema e ci fanno un film. Ma perché invece di far subire a noi i loro problemi non vanno da uno psicanalista (ride)? Poi ci sono diversi modi per raccontare le cose. Gabriele Mainetti e Nicola Guaglianone hanno fatto una cosa meravigliosa realizzando Lo chiamavano Jeeg robot, che non è la storia di un supereroe, ma una storia d’amore condita con un’idea da supereroe. Puoi parlare di qualsiasi cosa, ma è il condimento che spesso viene dimenticato. Il cinema popolare è fatto per il popolo e che, per quanto ci piaccia o no, lo ricorderemo tra trent’anni. Pulp fiction è pop, come pure Dario Argento, e, per esempio, Cannibal holocaust di Ruggero Deodato è per me uno dei film più fighi che esistano, copiato da tutti. Io sono contentissimo di essere qui al Terni Pop Film Fest a presentare La banda dei tre. Ti dico anche che io darei un premio alla carriera ad Alvaro Vitali.    

 

Francesco Lomuscio