The book of vision: un apologo fantasy prodotto da Terrence Malick

Non era facile per un regista all’esordio nel cinema di finzione come Carlo Hintermann, alle prese sinora col carattere d’autenticità dei film documentaristici, sottrarsi all’impasse dell’adulazione per essere prodotto dal guru texano Terrence Malick. Raccoglierne l’eredità con l’apologo fantasy The book of vision era già in partenza una missione impossibile.

Ben lungi dal fare il verso ad agenti segreti tipo Ethan Hunt, ed estrarre sulla falsariga della ridicola immodestia inattesi conigli dal cilindro, l’avventizio autore gioca a carte scoperte. Escluso sin dall’incipit il valore aggiunto del mistero, che riesce ad alimentare la forza significante della poesia convertendo l’ampio margine d’enigma dei gialli canonici nell’inusitata incognita dell’aura contemplativa, la scrittura per immagini va a colpo sicuro con riprese aeree ed effetti zoom dall’alto verso il basso alieni alla polivalenza lirica dell’insita tensione formale.

Il contenuto, ovvero la trama, antepone, quindi, l’immediatezza espressiva del colpo di gomito all’analisi parca ed evocativa degli stati d’animo. La cura dei dettagli ravvicinati stona subito con le tecniche di straniamento adottate alla bell’e meglio per esibire composite prospettive congiunte agli sguardi in macchina dell’inquieta protagonista femminile. Eva. Una dottoressa che abbandona la professione per trovare nella storia della medicina le risposte alle incertezze che l’attanagliano. L’interazione tra presente e passato, ai tempi della Prussia del Settecento con l’amara egemonia della crudezza oggettiva sul culto dell’anima, eletto ad antidoto contro l’angoscia di scomparire, sugli scudi, non prospetta soluzioni impreviste degne di nota. La valenza cromatica ad appannaggio dell’esperto ed erudito direttore della fotografia Joerg Widmer, che in Pina di Wim Wenders seppe conferire ai timbri figurativi la virtù di riverberare lo slancio visionario connesso alla danza, risulta un’affabulazione fine a sé stessa. Il rilievo assunto, invece, dallo zelo scenografico, con gli interni claustrofobici sia del terzo millennio, sia del XVIII secolo in grado di riuscire ad approfondire l’inquietudine celata dietro l’irreprensibile compostezza, dà nerbo ed estro all’estrinseca fenomenologia esistenziale. Il ricorso, però, ad alcuni raccordi di montaggio che, invece d’imprimere all’andamento ritmico della composizione in parallelo un fulgido rapporto di coalescenza ed empatia, privilegiano le pagine illustrative, senza quindi l’opportuno spessore spirituale, ribalta in enfasi manieristica la ricerca dell’alterità.

Intesa alla stregua di qualcosa d’incorporeo. Il bisogno di svelare l’arcano in merito all’amor vitae, al cupio dissolvi, al mondo invisibile dove le presenze dell’aldilà trascendono l’alterigia delle false certezze, tenendo legati alla poltrona persino gli spettatori più scettici sulla potenza eterea, spinge Hintermann ad applicare formule panteiste. Con il risultato di scimmiottare tanto il crescendo emotivo dei destini incrociati da Paul Thomas Anderson in Magnolia quanto l’astrazione intellettuale rinvenibile nel piglio antinarrativo di Malick in cabina di regìa. Le modalità esplicative congiunte agli stilemi dell’ovvia geografia emozionale, che stenta ad assicurare al lago di Levico, nelle vesti dello specchio d’acqua dell’austero Regno di Prussia, la capacità di riflettere il senso compiuto dei risvolti inattesi del racconto, e i cascami mélo con Eva coinvolta in una tenera laison, esacerbata dai continui segreti, contraddicono il lavoro di sottrazione iniziale. Così, in mezzo ad anziani luminari costretti a cedere il passo ai giovani colleghi, privi d’umanità, alberi magici, con le radici percorse dai feti palpitanti delle creature scomparse nei ventri materni, strascichi horror, frangenti ultraterreni, meraviglia fiabesca, l’ingegno creativo del favolista di rango è il grande assente. Lo sostituisce la furbizia levantina tipica dei nani sulle spalle dei giganti. Da David Wark Griffith a Victor Sjöström. Da Terrence Malick ad Apichatpong Weerasethakul. The book of vision sta infatti a Mekong Hotel di Weerasethakul come Harley Davidson & Marlboro Man di Simon Wincer sta a Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola.

L’estrinseca speranza della rinascita, con gli spiriti di ieri che seguono gli affanni di Eva al buio, lontani da occhi indiscreti, innesca carezzevoli note intimiste. Incapaci, tuttavia, di lasciare una traccia degna di nota. A causa del trattamento superficiale ed ergo sbrigativo riservatole per dare, al contrario, troppo spazio ad altri particolari piuttosto raccapriccianti. A dispetto dei momenti epifanici, sostenuti dalle pretenziose carrellate trasversali, le rivelazioni stentano a toccare la vetta dell’iperbole. La loro prevedibilità, causata dalla vanagloria di preferire uno spento stile contegnoso nel momento di attribuire il gusto del colpo di coda ad ancestrali sentimenti d’insicurezza, certifica le incongruenze dell’intera operazione. Appesantita dagli esami comportamentistici congiunti agli sfondi esornativi. Ad uso di un pubblico ostile alle storie lineari che scambia le soluzioni sceniche attinte all’estro dei riveriti maestri, con le varianti personali ridotte all’osso, per la marcia in più dell’acume geniale. Di genio in The book of vision non ve n’è neanche l’ombra. Le zone buie, nonostante il saldo professionismo di Hintermann sul versante del realismo nudo e crudo, tradiscono la mancanza della sagacia artistica che metta in luce i sogni annebbiati dal diktat della mera razionalità. La modesta metafora conclusiva che vorrebbe divenire un inno all’ordine naturale delle cose, che sublima il coraggio di mettere da parte l’interregno della materia per riporre fede in ciò che non si vede, ma si sente, chiude mestamente il cerchio. L’attrice olandese Lotte Verbeek, nel ruolo di Eva ed Elizabeth, alterego della società estinta, recita in maniera armoniosa. Nondimeno rimane la semplice pedina di un’arrogante scacchiera. Che sale in cattedra per poi cadere nel ridicolo involontario.

 

 

Massimiliano Serriello