È l’ennesimo kolossal dai piedi d’argilla, che dietro l’ingente sforzo finanziario al servizio di un’operazione monumentale cela l’attitudine ad anteporre lo specchio per le allodole dei coefficienti spettacolari alla virtù di esprimere un composito ed empatico mondo interiore attraverso l’effetto dell’esperienza convertita in poesia grazie all’ausilio della capacità d’allestimento, oppure The brutalist consegue lo status d’opera magna dell’ex attore Brady Corbet divenuto regista in grado di trarre partito dal passato per dare linfa al presente erudendo l’avvenire sulla scorta dell’estro?
La risposta, per niente scontata, non può affidarsi alle nomination all’Oscar giunte col favore dei pronostici. Al di là degli abituali termini di raffronto dei membri aventi diritto al voto dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che spesso e volentieri lasciano a bocca asciutta pellicole di particolare pregio culturale, per sciogliere l’enigma urge capire se il Magnum opus di Corbet, deciso dopo The childhood of a leader – L’infanzia di un capo e Vox Lux a entrare in pianta stabile nel Pantheon degli Autori con la “a” maiuscola, consente alla scrittura per immagini della fabbrica dei sogni di garantire pure alla rassegna degli incubi a occhi aperti il controcampo di passioni analoghe allo spazio dei palpiti dispiegati in chiave architettonica.

Ed è appunto un architetto ebreo ed europeo, sopravvissuto all’Olocausto, il protagonista di The brutalist, László Tóth, che abbandona la natìa Ungheria per giungere, stipato insieme ad altri immigrati sotto la cabina di guida della terza classe dell’arcaica imbarcazione, nella terra per eccellenza delle opportunità. Incarnata dalla Grande Mela. Con l’effigie dell’emblematica Statua della Libertà capovolta dalla soggettiva dell’esule. Spossato dalla stanchezza dello scomodo viaggio. Stordito inoltre dal passaggio dal buio dentro la stiva all’ingannevole luce connessa alla valenza del ribaltamento semantico. Ravvisabile anche nell’affresco rievocativo I cancelli del cielo di Michael Cimino tramite il roboante approdo della cavalleria. Che traligna la rassicurazione del classico modo di dire “arrivano i nostri” nell’angoscioso presagio dovuto all’enunciato di segno opposto. L’infeconda sensazione di déjà vu tende così ad accrescere step by step l’accidia degli inidonei plagi camuffati da sentiti omaggi nei riguardi dei riferimenti per tutti i punti: Il padrino – Parte II di Francis Ford Coppola, attinto per esporre alla stregua di tableaux vivants le interminabili file disposte nella gestione dell’affluenza di massa alla porta d’ingresso di New York in attesa dell’accertamento dei requisiti richiesti dalla legge; C’era una volta in America del nostro Sergio Leone, preso a modello nella ricostruzione d’epoca dei vicoli dove l’atto di consumo rinvenibile nel fugace rapporto sessuale con la prostituta di turno è posto in confronto ai brividi dell’amore autentico; Bugsy di Barry Levinson, ricalcato in lunghi tratti nella parte decisiva concernente l’impresa di erigere una sorta di mausoleo sulla scorta dell’indubbio slancio vitalistico e creativo con la spada di Damocle però dietro l’angolo volta a far pesare il superamento dei costi del progetto in balia d’inclementi mecenati; La fonte meravigliosa di King Vidor, eletto ad archetipo da seguire palmo a palmo sulla scia della filosofia oggettivista condotta in porto dall’artefice del museo Guggenheim interpretato da Gary Cooper a dispetto dei vanesi padroni del vapore.

Cosa resta dunque in The brutalist, stringendo dappresso, se si tralasciano i variopinti ricalchi, impliciti ed espliciti, della fragranza dell’originalità sfoggiata nell’esordio, povero di mezzi economici ma ricco d’idee personali, avvenuto con The childhood of a leader – L’infanzia di un capo? Forse unicamente la divisione in capitoli al pari della destrezza di veicolare l’alacre intarsio di luci e ombre sotto l’aspetto metaforico nell’orrore del dolore in agguato. Rintracciabile col debutto in cabina di regìa nel centro d’irradiazione d’inediti dissapori nati al termine del primo conflitto mondiale sull’onda di protesta per la stipulazione dell’iniquo trattato d’ipocrita pace congiunto all’iniziazione all’età adulta di un preadolescente allergico a qualsivoglia tipo di supplica. Adesso l’intrinseco cupio dissolvi nel periodo a partire dal 1947, con l’uragano di fuoco e sangue della seconda guerra mondiale quindi appena alle spalle, beneficia d’una definizione maggiore grazie al formato in 75 millimetri per consentire agli incontestabili prestiti figurativi, alla gamma cromatica congiunta alla geografia interiore ed esteriore impressa al giro di boa delle panoramiche, con l’insito adocchiamento dell’Altissimo, alle miniature dei grandi fabbricati, al “nocciolo duro della bellezza” riferita all’incarico assegnato dal nababbo Harrison Lee Van Buren, desideroso di dedicare alla memoria della defunta madre un’enorme area a perdita d’occhio impreziosita dal moderno design industriale, la scioltezza di muoversi sfruttando il potenziale fascinatorio delle forme plastiche fornite dal cemento a vista sull’humus dell’atroce ed enigmatica doppiezza. La missione può ritenersi compiuta nell’ambito della psicotecnica recitativa di Guy Pearce nei laidi ed eleganti panni del tycoon intento ad assoggettare László Tóth all’altalena delle sue sprezzature d’umore. Passando dalla collera alle scuse, col capo cosparso di cenere, dalla facondia dei complimenti, legati all’onore delle armi reso dal volubile pezzo grosso all’uomo d’ingegno, sino a degenerare nella sodomia.

Consumata al fianco dei pendii scoscesi vicino Carrara, nell’interno d’ascendenza dantesca dei giganteschi blocchi di pietra, inquadrati con pleonastica enfasi manierista, dove il ben più avvertito ed esperto collega russo Andrej Končalovskij, reduce dallo splendido apologo sull’anelito di libertà delle persone scampate all’inferno dei lager Paradise, ha girato Il peccato – Il furore di Michelangelo. Dando ben altro rilievo contenutistico ed empatico all’assoluta e vibratile voluttà di piegare la materia, costituita dalle cave di marmo, allo slancio dello spirito. Schiavo dei raccapriccianti ghiribizzi, frammisti alla spaventevole invidia, del viscido sovvenzionatore. L’effigie man mano delle assi di legno, del lavoro di gruppo, della grondaia da sostituire, delle finestre, dei container per lo stoccaggio, degli attimi epifanici ed estatici uniti all’operosità dell’atto realizzativo, frustrato da quello mefistofelico, cedono poi la ribalta agli infertili timbri edificanti evidenziati dall’ambizioso montaggio. Deciso ad assemblare la pietas delle croci incise sul marmo, i movimenti di macchina a semicerchio e i lenti carrelli in avanti come fossero elementi strategici d’un collage in possesso della forza magnetica sancita dalle immagini trasformative. Le modalità esplicative, ree invece di sconfessare gli eloquenti silenzi inseriti per dare a intendere la catarsi della suggestione legata all’architettura anziché sbandierarla ai quattro venti, tradiscono lo scontato ripiego negli stilemi mélo, conformi alle velleitarie asserzioni prive di mistero degli ordinari film a tesi, al posto della rara maestria d’incrociare diversi piani visivi ed eclettici stilemi. Innescati nel corpo sociale della Nazione, in apparenza accogliente ma marcia dal didentro, in cui il sottosuolo dei gesti comprensivi si va ad appaiare, da copione, alla crudeltà attribuita al mostro del capitalismo. Specie agli occhi dei proseliti del livellamento egualitario convinto di trascendere il Tempo e fornire ai posteri un quadro d’insieme, con templi ed edifici incorniciati di traverso, frutto dell’esperienza della duplice prigionia. Trasformando in tal modo il male in bene.

Il personaggio della coriacea moglie del fragile architetto, che Felicity Jones rende memorabile a differenza della fuffa contrabbandata per sottigliezza, bada al sodo. Risvegliando i sensi sopiti del consorte, in un momento d’intimità degno di nota, rialzandosi dalla sedia a rotelle, dovuta alla fame patita nel simmetrico inferno di Dachau, cantandole chiare al sopraffattore. Adrien Brody, al contrario, nelle vesti fragili ed eminentemente estrose di László, appaga assai meno chi lo aveva ammirato nel toccante Il pianista diretto da Roman Polański per la misura della rimarchevole recitazione. Soppiantata da un compiaciuto gigionismo profuso nel gioco fisionomico alterato dalla dipendenza dall’eroina per lenire i demoni privati. Che nell’arco dell’intero racconto imperniato sul riverbero collettivo, seppur scorrevole per mezzo di alcuni accorgimenti da scaltra soap opera dissimulata dalle mappe emozionali sparse in prossimità dell’epilogo caramelloso, stentano ad articolare appieno la pur valida gamma di sfumature ed echi previsti dalla sceneggiatura. L’imponente durata di The brutalist, con l’intervallo contraddistinto dalla lancetta all’indietro, occulta altresì a fatica l’involuzione riscontrata sul versante della sagacia introspettiva rispetto alla gestione della pressione, al delirio d’onnipotenza, all’ansia di prestazione e allo strascico dei traumi causati in nome della superiorità di classe dal gruppo etnico White Anglo-Saxon Protestant in Vox Lux. Le polveri bagnate di The brutalist, cagionate dalla magniloquenza della confezione e dall’ampollosità del messaggio progressista, innescano nel cuore dei cinefili simili ai tifosi di calcio la speranza per un’inversione di tendenza all’insegna del diritto al merito nell’aggiudicare la prestigiosa statuetta al cosiddetto best movie. Anora di Sean Baker, Io sono ancora qui di Walter Salles ed Emilia Pérez di Jacques Audiard privilegiano alle puntate nel ridicolo involontario indotto dalla mitomania dell’orchestrazione di The brutalist nuovi e antichi assilli, inobliabili foto segnaletiche e coinvolgenti discese negli inferi, schietti interludi burleschi e compassionevoli, carezzevoli rimandi citazionistici e soprassalti d’autentico decoro. A braccetto con un Tempo che la Settima arte non deve né può trascendere, ma può e deve attraversare ed esplorare.
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