Specializzato in documentari, il regista britannico Joshua Oppenheimer esordisce con il musical The end.

Dei suoi documentari hanno suscitato molto interesse quelli relativi ai genocidi anticomunisti: effettuati dal potere indonesiano: L’atto di uccidere, del 2012, e The look of silence, del 2014.

Un bunker di lusso abitato da sei persone, di cui tre legati da stretta parentela: un padre, interpretato da Michael Shannon, una madre, incarnata da Tilda Swinton, e il loro figlio, portato in scena da George MacKay. Il primo è un magnate dell’industria pieno di rimorsi, condensati in una maschera di amarezza che, attraverso la mimica facciale davvero intensa di Shannon, straripa in eccessi di ira e cattiveria. Il poliedrico attore lo avevamo già visto interpretare un personaggio rinchiuso in una casa nel delirante, claustrofobico e allucinatorio film di William Friedkin Bug, del 2006. Insieme a lui, nel lungometraggio di Oppenheimer, c’è una moglie e una madre che è anche un ex ballerina nel cui sguardo assente possiamo leggere un’alienazione catatonica, che riassume la disperazione per un mondo deflagrato e di cui non si ha più contezza. La Swinton aveva tra l’altro già partecipato ad altro film distopico: Snowpiercer, del premio Oscar Bong Joon-ho, che narrava di un’umanità decimata da una nuova era glaciale. L’attrice britannica aveva una parte cinica e autoritaria, mentre in The end è una figura opposta, fragile e ostinata nel voler conservare l’apparenza di un mondo che non c’è più. Il figlio di questa malinconica e tormentata coppia sembra collegato da un fil rouge al personaggio che lo stesso George MacKay aveva portato in The Beast di Bertrand Bonello, del 2023, altrettanto distopico e che univa fantascienza e dramma in una società scarna di emozioni. Ha circa vent’anni, è nato nel bunker e non ha quindi conosciuto direttamente emozioni e sentimenti.

I personaggi di The end non hanno un nome, ma sono identificati per ciò che rappresentano, e a vivere con essi vi sono anche un’amica, ovvero Bronagh Gallagher, il maggiordomo, cui presta il volto Tim McInnerny, e Lennie James nelle vesti di un dottore. A scardinare lo status quo delle cose si introduce nel rifugio, una ragazza proveniente dall’esterno, interpretata da Moses Ingram. Al servizio di un musical che racconta di un disastro climatico esiziale derivante dalle troppe industrie che hanno causato un surriscaldamento globale e apocalittico. La figura di Shannon comprende di aver contribuito alla catastrofe e somiglia ad un Dio che incarica suo figlio di scrivere la sua biografia, una sorta di Bibbia in cui, però, omette i propri misfatti, riscrivendo la storia a suo piacimento. Joshua Oppenheimer con il suo film rammenta in senso allegorico allo spettatore il lockdown durante il periodo del Covid -19, vissuto in una segregazione forzata il cui unico scopo era quello di sopravvivere, sentendosi al sicuro all’interno delle proprie mura. Tutti ciò ci ha resi più egoisti in un distanziamento sociale che ha esasperato la volontà di mantenere intatti i propri interessi e privilegi. A tal proposito, le scenografie rappresentano lo sfarzo del rifugio e il mantenimento dei ruoli, nonostante la fine del mondo. Il capitano d’industria, il padre, dispoticamente continua ad affliggere i suoi sottoposti, come il maggiordomo che resta uno schiavo a prescindere.

The end utilizza dunque la forma del musical per rendere innaturali e grottesche le dinamiche che si svolgono all’interno del rifugio, e questo esperimento è perfettamente riuscito, anche nella monotonia delle canzoni che difficilmente si distinguono l’una dall’altra, restituendo la giusta sensazione di giorni tutti uguali. Sebbene la scelta di stile e il registro narrativo siano efficaci, la storia non riesce però a coinvolgere, complice anche la durata di due ore e mezza che si percepisce davvero eccessiva. Tra le note positive, sicuramente le prove attoriali e le tematiche che raccontano di un’umanità che fugge da se stessa e dalle sue responsabilità, cercando di mantenere in vita il proprio mondo mentre sta affondando e lasciando in eredità generazioni sempre meno empatiche e prive di emozioni. In conclusione, The end porta in scena un dramma post-umano rischiando di essere un esercizio di stile tecnicamente raffinato, ma che non conquista e non convince del tutto.


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