The farewell – Una bugia buona: un dramedy con un gran corredo di lacrime, risate e portate saporite

Salita perlomeno di un gradino dal punto di vista espressivo rispetto alla precedente fatica cinematografica, Posthumous, incentrata in chiave mordace sul rapporto tra arte ed esistenza, la regista cinese naturalizzata statunitense Lulu Wang cerca di ergersi ad autrice a tutto tondo con The farewell – Una bugia buona.

Anteponendo ai tratti distintivi della comedy-suspenser gli stilemi dell’affresco intimo, il film ne pone in risalto la predilezione per il carattere d’autenticità e l’inane ricercatezza del tocco trasfigurante. Il bisogno di oltrepassare gli evidenti limiti dei prodotti strappalacrime ed esibire, al contempo, le dinamiche familiari scompaginate dalla punta di spina del dolore, vissuto palmo a palmo per colpa dell’orrido diktat della malattia, innesca un’ampia gamma di umori sottopelle ed empiti curiosi. Ad appagare gli spettatori restii a tirar fuori il fazzoletto è dapprincipio l’estrinseca componente umoristica che funge da valido ago della bilancia nel mettere vicini il panico per l’imminente lutto e l’aguzzo acume delle cornici derisorie.

L’idea di per sé sarebbe pure discreta se l’antiretorica ivi connessa non tralignasse a lungo andare nell’enfasi manieristica. La smania di mettere tanta carne al fuoco, per supportare il plot redatto di proprio pugno con alcuni stranianti cortocircuiti frammisti alla rigorosa analisi antropologica ed etnologica, stenta a trovare gli accordi giusti. L’intensa vicenda, che vede la giovane Billi, trapiantata giovanissima nella Grande Mela insieme ai genitori, reggere controvoglia il gioco ai parenti decisi a celare all’amata nonna Nai Nai l’atroce tumore, soffre, infatti, di parecchie incongruenze. Alla schiettezza dell’ispirazione autobiografica, in grado di congiungere alla minuzia descrittiva la verità sconcertante dell’analisi degli stati d’animo, con molti richiami ad Altman nelle riunioni conviviali e nei requisiti da film-mosaico, corrisponde, di contro, la voluttà di alzare ancor più il tiro. Con il risultato, assai discutibile, di accostare la precisione geometrica di determinate sequenze – come quella concernente l’interludio all’interno del centro massaggi – ad altri passaggi votati ai graffianti e beffardi tópoi dei pamphlet surreali. Mentre la puntura di spillo rifilata in filigrana alla tecnica orientale intenta a ristabilire l’equilibrio energetico del corpo e gli esercizi mattutini dell’ignara capostipite, convinta di scacciare così le tossine nocive, colgono nel segno, in virtù degli accorti semitoni, l’implicito richiamo della foresta, con il mesto ritorno nella patria natìa, lascia piuttosto a desiderare.

L’erudito lavoro di sottrazione, che riduce all’osso le eccessive scorie patetiche del mélo, sembra ispirare meglio l’instabile Lulu Wang rispetto alle impennate liricizzanti della colonna sonora. Il leitmotiv del cibo, con gli impliciti rimandi a Il banchetto di nozze e Mangiare bere uomo donna diretti da Ang Lee prima di disperdere l’estro genuino nelle opere internazionali su commissione, mostra, invece, presto la corda. La scusa addotta dal matrimonio del cugino per stringersi attorno a Nai Nai rimarca l’impaccio delle scene a tavola. Con l’attenzione riposta maggiormente sulle sapide pietanze passate in rassegna e sui parenti che mangiano a quattro ganasce anziché sulla forza significante degli sguardi precari. L’infruttifero ricorso ora alle palesi correzioni di fuoco, concepite dall’invadente fotografia, ora ai movimenti di macchina a schiaffo lacera, de facto, la rara consapevolezza raggiunta dalle emozioni in sordina capaci, nonostante ciò, di andare in profondità. La scelta di giustapporre agli inserti semi-documentaristici l’ampolloso ralenti, allo scopo di veicolare l’interesse del pubblico nei confronti delle compiaciute ed estrose esasperazioni, risulta, contrariamente, piuttosto superficiale. L’interazione tra i cinguettii e i trambusti intradiegetici ed extradiegetici, con le cadenze dell’amara presa in giro che completano il ritratto dei personaggi, si ferma sulla soglia del semplice buon mestiere. La visita in gruppo alla tomba del nonno, lungi dallo sterzare nella retorica fine a se stessa o nello scandaglio a largo raggio dei sentimenti funerei, mantiene fede all’asciuttezza dell’incipit.

La modalità di presenza degli esterni, specie i luoghi dell’infanzia della vetusta inferma sbirciati fugacemente dal finestrino dell’automobile, rende onore alla visione mitopoietica congiunta al senso d’appartenenza. Il programmatico confronto delle culture agli antipodi finisce, però, col trascinare nella noia ed ergo disperde l’ironia dispensata in precedenza. Anche se non proprio a piene mani. La virtù di scrivere con la luce, garantita dagli abili ed emblematici mutamenti cromatici, non basta a condurre il cambio di prospettiva sull’humus dell’idonea versatilità. L’inesausta ricerca del giusto equilibrio, per dare un colpo al cerchio dell’onesto spasso e l’altro alla botte dello scandaglio interiore, paga dazio ai pasticci sentimentali che mandano vane scintille confondendo gli intoppi nel ritmo del racconto nell’ipnotica lentezza ad appannaggio dell’aura contemplativa. Awkwafina, nota rapper che, tra l’altro, abbiamo visto in Jumanji – The next level impegnata ad impersonare con un certo brio l’atletica Ming Fleetfoot, conferma le notevoli doti d’interprete conferendo al profilo ingobbito e risentito di Billi un’ottima varietà di sfumature.
Il timore di concedere ulteriore spazio al dolciastro in The farewell – Una bugia buona conduce, in ogni caso, l’input caloroso del cuore palpitante nella respingente freddezza dell’inservibile calcolo stilistico.

 

 

Massimiliano Serriello