The father – Nulla è come sembra: lo spirito di verità di un Anthony Hopkins da Oscar

The father – Nulla è come sembra, esordio sul grande schermo dell’esperto drammaturgo transalpino Florian Zeller, cerca nel rapporto tra immagine e immaginazione della fabbrica dei sogni l’humus per riuscire ad adattare la propria pièce teatrale Le Père alle emblematiche ed erudite gradazioni di tono del cinema surrealista. In grado di conferire agli elementi ambientali, ai movimenti di macchina e alle correzioni di fuoco, che veicolano lo sguardo del pubblico in una direzionalità fuori dall’ordinario, la struttura labirintica della vertigine mentale.

Lo spirito di autenticità affidato invece al mostro sacro Anthony Hopkins, fresco vincitore del secondo Oscar, dopo quello assegnatogli ventinove anni prima per Il silenzio degli innocenti, a dispetto di Riz Ahmed, assai più meritevole nel ruolo dell’incredulo batterista costretto ad affrontare in Sound of metal l’irrompere della perdita dell’udito, offre molteplici spunti di riflessione. Perché se da una parte contribuisce in larga misura ad accrescere l’appeal del film, sulla scorta della proverbiale misura frammista in questo caso ad alcuni interludi gigioneschi comunque sempre d’altissima scuola, dall’altra mette in risalto la mancanza di efficaci soluzioni tecniche.

L’egemonia dell’affascinante ma alla fin fine prolisso gioco fisionomico sugli incommensurabili colpi d’ala del carattere d’ingegno creativo nuoce parecchio al climax delle intime traversie dell’anziano signore – l’ex André di Le Père ribattezzato Anthony in omaggio all’illustre interprete gallese – infastidito dall’oscura sollecitudine dell’ansiosa figlia Anne. Nonostante l’ottima resa scenografica dell’appartamento dove, oltre ad affiorare lo smarrimento della terza età, spiccano i quadri e gli oggetti che dovrebbero assumere la valenza metaforica dei tipici indizi del genere giallo, lo zelo figurativo non innesca l’idoneo controcanto introspettivo. L’interazione tra suoni diegetici ed extradiegetici, con Anthony munito di cuffie che si assenta per ascoltare la carezzevole musica lirica, risulta troppo risaputa. Pertanto l’agognato valore espressivo della sintomatica verità interna al personaggio stenta a stabilire quel profondo rapporto di coalescenza grazie al quale ogni spettatore avverte appieno gli stessi picchi elegiaci e i medesimi, disturbanti, divari ritmici. Inoltre le canoniche inquadrature di profilo alla finestra, i tagli di luce provenienti dall’esterno e l’evidente gamma cromatica, allestita dalla pur volenterosa fotografia di Ben Smithard, antepongono ai puzzle prospettici, forieri di false tracce ed esiti imprevisti, la rappresentazione convenzionale aliena alla fantasia dell’affresco dispiegato palmo a palmo.

Scegliere la semplicità ed ergo l’immediata concretezza, anziché un complesso intreccio di trovate cerebrali, è sacrosanto. Tuttavia al posto dell’antiretorica, che preserva i momenti di maggior commozione dall’impasse dell’accumulo dando la precedenza al rigore stilistico per garantire all’aura quotidiana dell’arcano da svelare l’essenzialità degli apologhi scevri dai ghirigori, emergono deleterie zone di freddezza. L’assenza delle virtù registiche necessarie ad andare al sodo, impedendo all’impellente calore umano d’intopparsi nel patetismo dei mélo strappalacrime, passando da un eccesso all’altro, spinge l’involuto Zeller a nascondere dietro la suggestiva prova dell’intero cast l’assoluta penuria di sfumature. A differenza dell’estrosa parabola domestica La caja vacía di Claudia Sainte-Luce, che recupera tassello per tassello gli annebbiati ricordi d’un padre al crepuscolo desideroso però di chiarirsi col sangue del suo sangue, la scatola vuota della mente afflitta dall’implacabile demenza senile riserva poche sorprese.

Per trasmettere il brivido dell’amara scoperta nei corridoi dell’abitazione, attinti alla bell’e meglio a La famiglia di Ettore Scola e ad Amour di Michael Haneke, occorreva una feconda padronanza dei ferri del mestiere. Delegata al contrario, quasi in subappalto, nell’ordine narrativo del thriller meditabondo, agli ammiccanti incastri del montaggio di Giōrgos Lamprinos. Mentre la dinamica del campo-controcampo compensa l’astratto tentativo di sciogliere nodi da riallacciare in zona Cesarini con i fulgidi primi piani di Anthony Hopkins e Olivia Colman (Anne), sia pure privilegiando l’esplicito pathos ai semitoni, il clima di mistero paga dazio all’andatura sedativa. Contrabbandata per ipnotica lentezza. Quando il mix di realtà ed elaborazione chimerica alla base degli abbagli tocca l’acme, subentra l’appello caritatevole. Ignorato dai pezzi di ghiaccio. Promosso dai teneri di cuore. In medio stat virtus: Voglia di tenerezza di James L. Brooks resta un modello inaccostabile. Che impreziosisce la toccante pittura dei caratteri con lo slancio della psicotecnica e le note gravi unite al tocco brioso. The father – Nulla è come sembra, viceversa, trascina nella noia di piombo le platee avvezze ad ampi margini d’enigma. La palla al piede del segreto privo di sugo sciupa così l’intensa leggerezza di un venerando maestro della recitazione.

 

 

Massimiliano Serriello