The French dispatch of the liberty, Kansas evening sun: la… Prima pagina di Wes Anderson

Accusato dai detrattori di battere sempre sullo stesso chiodo, servendosi dell’eccentricità della forma per approfondire i contenuti prediletti – dalla seconda chance concessa alle anime disilluse dal vagheggiamento dell’avventura al rito funebre alieno all’arida retorica – adattando gli attori in carne ed ossa all’effige dei cartoon, celebrato dai fan tipo un guru, intento ad anteporre i frammenti poetici garantiti dall’arguzia al poeticismo degli autori stucchevoli, l’alacre regista statunitense Wes Anderson dimostra con l’ultima fatica dal titolo traboccante – The French dispatch of the liberty, Kansas evening sun – di non aver certo perso il vizio. E il pelo, attribuibile all’ingegno? Si tratta d’intrattenimento disimpegnato o dell’egemonia degli elementi costitutivi dell’estro genuino sull’ignavia dell’esercizio calligrafico?

Il valore di rappresentazione risiede nell’omaggio dispiegato nei confronti della carta stampata. Ed ergo dell’informazione. A caccia di fonti affidabili. Frutto d’inchieste giornalistiche impreziosite dalla fragranza di vita d’indefessi comunicatori. In possesso d’un fulgido senso dell’umorismo. Che ancor oggi funge da antidoto agli avvisi pro o contro, a corto di fosforo, e agli scoop privi di sostanza.

L’incipit col simulacro della pressa tipografica, dei cilindri in rotazione, dell’ampia tiratura della rivista americana French dispatch, con sede ad Angoulême, teatro a cielo aperto nella realtà dell’amatissimo festival del fumetto, divenuto nella finzione l’immaginaria Ennui-sur-Blasé sulla scorta del piacere d’inventare facezie plausibili, richiama alla mente il cult Prima pagina. Girato in Usa nel 1974, evocando l’Annus horribilis – 1929 – della Grande Depressione, dal guru austriaco Billy Wilder. Capace di conferire al solerte sberleffo, alle punture di spillo, alla satira, alla farsa intelligente lo spessore introspettivo ed evocativo della tragedia greca. Al pari dell’antesignano Ernst Lubitsch. Il nume tutelare, guarda caso, di Wes Anderson. Che integra la sua lettera d’amore – per la solidarietà dei redattori e il diritto all’autorità dei burberi benefici, ravvisabili nei direttori di giornale allergici alle lagne ma bravi a difendere l’agire dei proseliti ispirati ai princìpi deontologici – con l’inchino all’atmosfera profusa nel rimpianto secolo breve. A ben guardare però, a differenza di Ettore Scola in Che strano chiamarsi Federico, meritevole d’inserire nella briosa scrittura per immagini gli spezzoni dei ricordi dell’amico Fellini insieme all’esperienza maturata nell’età verde al settimanale umoristico Marc’Aurelio, il fragile status d’autorialità inciampa nella buccia di banana dell’infeconda precettistica. Snudata dal termine latino laudatores temporis acti: Wes Anderson non ha svolto in gioventù la professione del vignettista. Né quella del giornalista. Il successo non è arrivato nel Novecento. Bensì agli albori del nuovo millennio. Nel 2001, per la precisione, col dramedy I Tenenbaum. Quindi i sogni in retromarcia costeggiano timbri pretestuosi. A differenza degli strali lanciati da Chas Tenenbaum al capostipite Royal. Con il grido d’indignazione dell’adulto, rimasto bambino, con la tuta adibita a divisa, sull’esempio degli (anti)eroi dei cartoni animati, e un padre burlone ed egoista deciso a riscattarsi in zona Cesarini. Combinandone prima di tutti i colori. Il ricorso stavolta all’interazione del bianco e nero col formato 1,85:1 insieme al consueto spettro luminoso, a seconda degli stati d’animo associati alla gamma cromatica, tradisce la pigrizia delle idee prese in prestito ad Assassini nati – Natural born killers. Più all’incisiva sceneggiatura di ferro buttata giù da Quentin Tarantino che all’ampollosa regia su commissione di Oliver Stone.

Il necrologio organizzato in onore del direttore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) – che resuscita grazie alla rivoluzione della consecutio temporum sull’esempio dell’imbranato killer Vincent Vega in Pulp fiction di Tarantino (ecco un’altra coincidenza) – innesca un amarcord contraddistinto dalla visualizzazione, step by step, degli ultimi articoli della rivista: “Tour di Sazerac”, “Il Capolavoro di Cemento”, “Revisioni a un Manifesto” e “La Sala da Pranzo Privata del Commissario di Polizia”. Nel primo episodio il giro in bicicletta del reporter Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) cade nel bozzettismo, al pari dello sbrigativo protagonista vittima di capitomboli analoghi ai frizzi di Jacques Tati, cercando di congiungere al carattere superficiale del colpo di gomito gli effetti seducenti della geografia emozionale. Dietro cui si cela la vanagloria di esibire la scioltezza dello scenografo Adam Stockhausen. Che, d’accordo con Wes Anderson, ridefinisce i quartieri romantici, le vie affollate, le strade pullulate di passeggiatrici. In modo assai simile a Irma la dolce di Wilder (l’ennesima combinazione?). Nulla da dire sulle consuete nuance pastello, sulla decorazione d’interni ed esterni, sui paesaggi, gli arredi, gli elementi figurativi e visionari fedeli al concetto di cinema condotto in porto da Wes Anderson. Sia con I Tenenbaum, sia col recente cartoon movie L’isola dei cani. Lascia invece perplessi la propensione a ricavare i riempitivi aggiunti, (auto)promossi ad argute varianti, da modelli diametralmente opposti tra loro. E soprattutto incompatibili, per la natura anarcoide e irregolare, con la compostezza formale. L’immobilità apparente. La cenere dalla quale arde il divampare del sentimento. Ed è ciò che succede nel secondo episodio alla guardia carceraria Simone (Léa Seydoux) accettando di fare da modella nella prigione-manicomio al pittore con le rotelle in disordine Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro). Il passaggio dallo sguardo atonale, analogo alle figure muliebri degli apologhi malincomici di Aki Kaurismäki, all’occhiata colma di ardente trasporto non spiazza comunque la percezione degli spettatori scaltriti. Il ringhio del galeotto, lo sdegno del mecenate di turno, illusosi d’investire su un peso massimo dei dipinti astratti, i rimandi, sottobanco, a Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme e L’uomo che non c’era di Joel Coen, riletti sul versante parodistico, risultano, invece, abbastanza efficaci.

Pure se non esenti da qualche vano stravolgimento espressivo. Che col finale, al momento della rivolta dei reclusi gelosi, traligna nel ridicolo involontario dello slow motion e del fermo immagine. Senza porre in risalto l’impegno di J.K.L. Berensen (Tilda Swinton) nel redigere l’articolo sul pazzo votato alla sconfitta. Ed è un peccato. Perché i deliranti quadri di Moses sono stati creati dal compagno della Swinton, Sandro Kopp, ignaro di oscurare così la partner. Già relegata a testimone. Al contrario la moglie nella vita reale di Joel Coen, Frances McDormand, nel terzo episodio riveste un ruolo attivo. Incarnando la caustica ed esperta pennivendola Lucinda Krementz che instaura una relazione con l’imberbe studente contestatore Zeffirelli (Timothée Chalamet). Per poi cederlo all’eterea Juliette (Lyna Khoudri). Con lo split screen avvezzo a sottolineare la bontà della scelta e il cortocircuito onirico a chiudere la disputa amorosa. L’ultimo atto suggellato dal rapimento subìto dall’austero Commissario (Mathieu Amalric) precipita nel vieto copia e incolla. Il figlioletto, ripreso in bianco e nero, del Commissario che guarda da un pertugio la sequestratrice, a colori, come Noodles in C’era una volta in America di Sergio Leone basta a liquidare The French dispatch of the liberty, Kansas evening sun alla stregua d’un film viziato d’insistiti déjà-vu. Col simbolismo luministico di Assassini nati – Natural born killers nei panni dell’osservato speciale. La palingenesi in anime giapponese, ricalcata sulle orme di Tarantino in Kill Bill volume 1 per l’infanzia d’Ishii O-Ren, rincara la dose sciupando il pathos della fuga. Con Roebuck Wright (Jeffrey Wright) esiliato all’angoletto. Nella parte di un modesto aedo irretito dalle interviste. E sedotto dalle pietanze preparate dal cuoco del Commissario. Di tuffi al cuore, accostabili all’adesione del redivivo Chas ai dolci scherzi paterni ne I Tenembaum a un tiro di schioppo dall’amara dipartita, non se ne riscontra nessuno. Convinto di seminare zenzero ed echi colmi di significato, cementati dall’enfasi figurativa, Wes Anderson disperde l’antica verve. Sostituita dalla miriade di plagi. Manco camuffati da omaggi. Con buona pace delle arlecchinate precedenti. Legittimamente ispirate alla commedia dell’arte. Ma quella è un’altra storia. Wilder docet.

 

 

Massimiliano Serriello