Mentre il nostro Vermiglio diretto dalla talentuosa esordiente Maura Delpero incassa l’esclusione in zona Cesarini dalla cinquina dell’Oscar per il miglior film internazionale, pagando forse dazio allo scarso ascendente esercitato oltreoceano dall’effigie bucolica alla Ermanno Olmi del paese dell’Alta Val di Sole dove all’indomani del secondo dopoguerra il passaggio epocale cede la ribalta ai ritmi arcaici e contemplativi della civiltà contadina anziché allo scalpitante progresso, la fiaba gotica The girl with the needle, ispirata al raccapricciante caso della serial killer danese Dagmar Johanne Amalie Overbye, colpevole dell’assassinio di circa venticinque bambini affidatile in custodia nel periodo immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, ha raggiunto a sorpresa l’ambìto traguardo.
Anche se Il mio posto è qui di Walter Salles ed Emilia Pérez di Jacques Audiard rimangono favoriti per la vittoria finale, in virtù dell’avvertita cifra stilistica dei rispettivi autori, l’ambizioso regista Magnus von Horn, nativo di Göteborg, già artefice in quel di Varsavia dell’interessante apologo sul rovescio della medaglia dell’influencing odierno Sweat, può giustamente ritenersi soddisfatto.

Il riconoscimento ricevuto grazie alla trasferta nella dirimpettaia Danimarca, all’insegna dell’egemonia delle radici dell’orrore psicologico ricercate nel passato sui motivi d’insicurezza dovuti all’arma a doppio taglio rappresentata dalla cassa di risonanza fornita dall’uso degli attuali social network, sembra attestarne l’eclettico piglio da valente ritrattista introspettivo. Sensibile al bisogno degli spettatori, dai meno avvertiti ai più scafati, di conoscere la verità sulla raffigurazione della Minaccia, intenta ad agire sotto mentite spoglie, in conformità coi timbri antropologici ed etnografici. Alla base del condizionamento scandagliato nell’opera d’esordio Efterskalv in merito alle aspettative familiari infrante negli anni della crescita dal ricorso ad azioni violente. Dure a morire a dispetto dell’impegno profuso in appositi percorsi riabilitativi. A ben guardare la scelta del bianco e nero in The girl with the needle, anziché dar effettivamente vita a una poetica zeppa sotto l’aspetto simbolico di luci e penombre concernenti il concetto di purezza sottoposta all’empia destabilizzazione del lato oscuro caro a George Lucas, intende conferire al rilievo formale uno spessore contenutistico ed evocativo fuori dalla portata dell’involuto Magnus von Horn. Maggiormente a suo agio con l’analisi degli incubi contemporanei, condotta tramite una scrittura per immagini basata sul lavoro di sottrazione alieno sia in prassi sia in spirito alla vana lusinga dell’iperbole riguardante l’accumulo di casi da manuale dei disturbi del comportamento, rispetto alla storicizzazione attraverso l’ardua ottica fenomenologica esistenziale dell’instabilità emotiva tralignata nella mostruosità dell’infanticidio. Che genera, insieme all’orrore, indignazione e incredulità. La musica inquietante, le riprese stranianti, i gemiti, il lento carrello in avanti, carico comunque di senso, rientrano quindi nell’ordinaria amministrazione degli esercizi calligrafici.

Il ricalco sottobanco, tipico dei nani a corto d’estro sulle spalle dei giganti muniti invece a iosa d’ingegno, appare evidente nella sequenza in cui lo sventurato marito della protagonista, tornato sfigurato dal fronte bellico, è esposto alla stregua d’uno zombi nell’ambito del cinico freak show che nello sfruttare la disabilità degli individui rimasti senza risorse richiama alla mente la crudele fiera da baraccone esibita dal compianto David Lynch nell’inobliabile The elephant man. La mirabile pietas suscitata dall’empito di dignità regredita in stucchevole sensibilismo sconfessa per di più la disamina fredda, tagliente, in apparenza distaccata, di stampo scandinavo, ad appannaggio dei previ affreschi sociali e comportamentali. Il mix di facinorose aggressioni ed emblematiche disconnessioni lascia dunque spazio all’alternanza mirata di suoni diegetici ed extradiegetici, coi rulli di tamburo del malvagio show sostituiti al momento propizio da sinistri cigolii, alla crudezza oggettiva della visita medica che conferma lo stato interessante dell’immusonita operaia, fecondata da un baronetto sottomesso all’egida materna, al primissimo piano dell’imbelle esponente dell’aristocrazia autoctona. In linea con lo skyline del borgo d’origine medievale. Concorde alla potente drammaticità di facciata. Ai risaputi volti neolitici delle figure di fianco. Al neonato ripreso di sbieco. All’inopportuna stilizzazione dei sentimenti in subbuglio. Ben lungi dall’essere amalgamati, riverberati ed elaborati per mezzo degli appropriati strumenti espressivi precedenti. Affilati dal particolare acume di togliere al visibile per aggiungere all’invisibile.

L’esplicito rimando, viceversa, a Un affare di donne dell’erudito ed empatico Claude Chabrol, con l’approdo in scena dell’ipocrita megera che ospita l’ingenua plebea nel retro dell’ingannevole negozio di caramelle rassicurandola a proposito del solido nucleo domestico disposto ad accogliere la carne della sua carne, cementa definitivamente la marcia all’indietro dell’intera trama. Nascosta dietro la cornice austera ed elegante. Svilita dall’inidoneo quadro che paga dazio al deleterio senso di déjà vu. Quando la fantomatica intermediaria tra le famiglie adottive e le mamme dei figli della colpa esce al naturale, dopo la spaventevole scoperta della modalità omicida, attribuendo la colpa al mondo ormai invivibile, il racconto sembra ricavare giovamento dai connotati obiettivi dei mefistofelici misfatti. Ricondotti all’indubbia destrezza mimica dell’intensa Trine Dyrholm nel ruolo dell’alienata proprietaria dell’esecrabile fattoria dei bimbi dinanzi al tribunale e al legittimo diniego popolare. L’epilogo però del processo, che portò ad apporre sacrosanti riforme alla legge sugli affidamenti dei pargoletti, veicola la collisione della rediviva morale collettiva con la mancanza di coscienza privata, dovuta ai traumi subiti in gioventù, nei binari dell’obsoleto decadentismo europeo. Ad approfondire il rapporto tra tetri habitat e precari individui umani, in grado di compiere atti disumani, non può provvedere la performance, seppur debitamente misurata ed efficace, di Victoria Carmen Sonne nelle fragili vesti dell’instabile puerpera di bassa estrazione che svela troppo tardi l’arcano. A The girl with the needle manca, nell’incorniciare la mesta rassegnazione della ragazza madre impiegata nella fabbrica di cucito, rimasta con l’ago e un pugno di mosche in mano, la virtù di caricare d’impercettibili vibrazioni visive le corde ottiche tese fino allo spasimo dinanzi all’agghiacciante scappatoia dettata dalla patologia criminale. Sono, al contrario, le pleonastiche sfumature traboccate dalla rigidità di struttura del copia e incolla occulto ad accedere agli efferati delitti trascorsi a spese dell’innocenza. Al posto della fragranza dell’originalità garantita dell’antiretorica. Sostituita alla bell’e meglio, nonostante il beneplacito accordato dall’American Academy of Arts and Sciences, dalla discordante enfasi di maniera votata ai segni d’ammicco contraffatti. Disponibile in streaming in esclusiva su MUBI a partire dal 24 Gennaio 2025.
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