“Quando qualcuno muore nella morsa di un’ira potente, nasce una maledizione. Si consolida nel luogo della morte, ma non può essere contenuta, una volta che l’hai incontrata … non ti lascerà mai più”.

Tutto cominciò nell’ormai lontano 2000, quando il regista e sceneggiatore giapponese Takashi Shimizu, noto nell’ambito del J-Horror, diede alla luce il suo capolavoro Ju-on, letteralmente “rancore”. Qui si parlava di una casa rimasta vittima di una maledizione dopo che il proprietario vi aveva ucciso la moglie ed il figlio. Il rancore dell’uomo era rimasto imprigionato nella dimora, da quel momento maledetta, e chiunque vi si fosse recato sarebbe caduto preda della maledizione, che gli sarebbe rimasta attaccata come colla, propagandosi così nel mondo. Shimizu ottenne un successo talmente grande ed improvviso col suo Ju-on che fu chiamato a dirigerne non solo un sequel ma addirittura un remake prodotto dagli Americani, The Grudge (2004), che infatti, per una volta, non perde la forza incisiva dell’originale, ed il suo sequel, The Grudge 2 (2006). C’è da chiedersi, quindi, dopo tutte queste pellicole sul Rancore, a cui fa seguito anche un terzo capitolo americano per la regia di Toby Wilkins (2009), che cosa abbia ancora da offrire la saga ideata dal buon Shimizu. La risposta giusta, secondo me, sarebbe “nulla”, ma così non la pensano gli Americani che, costantemente a corto di idee geniali nell’ambito dell’horror, nel 2020 ci ripropongono l’ennesimo reboot che porta il solito titolo del film del 2004, The Grudge, diretto da quel Nicolas Pesce che nel 2018 ci aveva regalato l’interessante Piercing, tratto da un romanzo dello scrittore giapponese Ryū Murakami. Pesce, qui alla sua terza regia, realizza una pellicola che vorrebbe essere una scopiazzatura dei primi film, anche per la struttura a capitoli che riguarda le varie famiglie che hanno a che fare con la casa maledetta, ma che non ha un minimo della potenza visiva né dell’originale né del remake dello stesso Shimizu, e che non convince né per gli effetti, mal realizzati e poco credibili, né per la suspense, che praticamente non esiste, non riuscendo mai a spaventare nemmeno la metà di quello che avevano fatto i suoi predecessori.

L’azione si apre nel 2004 a Tokyo. L’infermiera Fiona Landers è turbata e decide di lasciare l’abitazione dove lavora per tornare a casa negli Stati Uniti. Mentre se ne sta andando viene a contatto con alcuni spettri che sembrano non volerla lasciare andar via. Ma invece ce la fa, e torna nella sua Cross River, in Pennsylvania, dove l’aspettano il marito Sam e la figlioletta Melinda, nella loro villetta al 44 di Reyburn Drive. Il fantasma che la giovane aveva incontrato a Tokyo l’ha però seguita, le si è come appiccicato addosso, ed ora dimora nella sua casa, da cui nessuno riuscirà più, una volta varcatane la soglia, ad uscire illeso. Ci si sposta poi nel 2006 quando la giovane detective Muldoon si trasferisce proprio a Cross River col figlioletto a seguito della perdita del marito per un tumore. Dopo il ritrovamento di una donna morta in auto in condizioni spaventose, sentendola associare alla casa di Reyburn Drive, la donna ne svilupperà una vera e propria ossessione, decidendo di capire cosa succede a chi entra da quella porta, ma, ovviamente, ne pagherà le amare conseguenze.

Temi importanti come il suicidio assistito, l’accettazione di un figlio con gravi patologie, le coppie eterogenee, la perdita di una persona cara a seguito di un tumore, la demenza senile, sono tutti accennati, presi, e buttati lì, senza che vengano mai realmente sviluppati o sfocino in qualcosa di più profondo che non siano le mere immagini dei protagonisti della mattanza della casa rancorosa. Non c’è davvero nulla di originale in questo nuovo The Grudge, se non una sonora dose di sbadigli che era completamente assente sia nell’originale che nel suo ottimo remake interpretato dalla carinissima Buffy, l’attrice Sarah Michelle Gellar. Si comincia subito coi soliti cliché delle gufate che i protagonisti dei film horror hanno da sempre amato tirarsi addosso: si sa bene che un trasloco, in un horror, non solo non migliora mai le condizioni di nessuno, ma anzi, le peggiora, buttando i malcapitati protagonisti in una spirale di orrore e morte. Anche qui, ovviamente, la famiglia della detective non farà eccezione, ma all’inizio ella non perde occasione di rimarcare al figlio come sicuramente andrà tutto benissimo, inizieranno una nuova, splendida vita, ed a nessuno di loro due succederà niente di male. Certamente, come no. Che noia, che barba, che barba, che noia! Si prosegue poi con questi spettri appiccicosi ma per nulla spaventosi, a differenza dei loro terrificanti predecessori, sebbene si cerchi di riprodurne le fattezze coi lunghi capelli che coprono il volto, ma che, nulla da fare, non sono minimamente credibili e non sortiscono davvero nessun effetto. La casa porta rancore, questo si sa, e quindi, per quanto bella come idea, non è nuova a coloro che conoscono la saga, e perciò non riesce a colpire più di tanto.

Gli attori non sono nulla di particolare, se si esclude la splendida Lin Shaye nei panni della Signora Matheson. Divenuta nota nel ruolo della medium della saga di James Wan Insidious, la Shaye è comunque una vera e propria regina dell’horror, avendo preso parte a pellicole iconiche come Nightmare di Wes Craven (1984), Critters di Stephen Herek (1986), ed alla saga di Ouija, giusto per citare solo qualche titolo. Il suo personaggio, folle e tenero al tempo stesso, di un’anziana colpita da demenza senile ma talmente amata dal marito che egli accetta di vivere con gli spettri della casa pur di restare con lei, è l’unico elemento veramente interessante del film, e un’interpretazione così a quasi 80 anni è sicuramente da lodare ampiamente. Tra gli altri membri del cast si distingue poi l’attore di origini coreane John Cho, già visto nella bella serie televisiva The Exorcist, qui nei panni dell’agente immobiliare che vende la casa maledetta ai Landers e che aspetta un figlio con gravi malformazioni dalla moglie. Ad interpretare la protagonista troviamo l’attrice britannica Andrea Riseborough, decisamente sciupata per il ruolo della giovane detective da pochissimo vedova e con un figlio piccolo da crescere, che si trasferisce credendo di andare incontro ad una sorte migliore e non sa invece che si infilerà in una spirale di morte ed orrore senza fine. Candidata all’Oscar come Miglior Attrice nel 2023, in questo film non dà il meglio di sé, sembra non crederci minimamente, ed, in effetti, come darle torto? Bella l’idea dei fantasmi della casa che si fondono coi suoi spettri personali, ma resa talmente male da perdere ciascun significato.

Alla fine, tra effettacci ed una buona dose di noia, il film arriva finalmente in fondo, facendoci tirare un sacrosanto sospiro di sollievo. E, vi dirò, è proprio la scena finale che, sebbene ce la si aspettasse, risolleva lievissimamente le sorti di questa, senza mezzi termini, orrenda pellicola. Sì, perché quell’ultimo sobbalzo giunge inatteso nella sua prevedibilità, lo hanno saputo, non so come, piazzare finalmente al punto giusto, e riesce perfino, udite udite, a spaventare un minimo, a creare un piccolissimo sussulto nello spettatore che forse immaginava di alzarsi dal divano con negli occhi l’abbraccio madre – figlio che sembrava dover concludere tutta questa terrificante vicenda di sangue, morte e follia. Invece Pesce qui si diverte a riportarci indietro negli anni Ottanta/Novanta, con un finale che più aperto al peggio non si può, e con quella bella inquadratura fissa sul vialetto d’accesso della casa dei Muldoon, con tanto di macchina parcheggiata. Ma, ovviamente, non basta un discreto salto alla fine per risollevare 90 minuti di noia allo stato puro. Mi chiedo se gli esterofili, che criticano tanto il nostro cinema indipendente italiano confrontandolo con quello statunitense, siano a conoscenza che oggi la maggior parte del mainstream a stelle e strisce è fatto di robaccia come questa, che non potrebbe piacere nemmeno allo spettatore meno esigente, vuoi per la completa carenza di idee, vuoi per la sconclusionatezza di tutta l’opera e la totale mancanza di tensione e di paura di qualsiasi tipo. Ed anche le riflessioni sui temi un po’ più scottanti, che sarebbero potute essere interessanti, si perdono nel nulla in maniera effimera, lasciando noi poveri spettatori esterrefatti con un unico e ben poco simpatico pugno di mosche. Questo è, quindi, il nuovo The Grudge, che mi auguro dal cuore possa almeno essere l’ultimo, e metta una bella lastra tombale su una saga tanto partita bene quanto arrivata male! E pensare che come produttore esecutivo di questo scempio legalizzato si trova nientemeno che il mastodontico Sam Raimi, che ultimamente, con la sua Ghost House Pictures, aveva prodotto titoli significativi come Man in the Dark di Fede Álvarez (2016) o Crawl – Intrappolati di Alexandre Aja (2019), senza dimenticare il remake del suo capolavoro La Casa, sempre a opera di Fede Álvarez (2013). Della serie “non tutte le ciambelle riescono col buco”, ahimè …

Lo spostamento dell’azione dal Giappone, dove questa storia è nata, agli Stati Uniti, sicuramente non ha giovato all’operazione, perché, se questi spettri sono incisivi e spaventosi nel loro territorio, diventano quasi delle caricature se trasposti in America, perdendo completamente la loro carica dissacratoria e agghiacciante. Spettri e buoi dei paesi tuoi, quindi, tanto per rimanere nella sempre verde saggezza popolare: gli yūrei vanno lasciati in Giappone, com’era stato fatto nel remake del 2004 che infatti ne aveva tratto grande vantaggio, risultando piacevole anche per i più scettici come me. Forse se Pesce lo avesse intitolato in altro modo, scrollandosi di dosso il peso che The Grudge può diventare, sarebbe potuto essere un prodottino mainstream carino da guardare con amici, pop corn e birra ghiacciata, ma quando si vanno a toccare i miti, si sa, i rischi sono tanti, e Pesce ha perso miseramente su tutta la linea. Senza alcuna speranza di riscatto, a meno di non lasciar perdere gli yūrei e provare a far qualcosa di suo proprio personale.

https://www.imdb.com/it/title/tt3612126


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