The happy prince, la decadenza del genio

Incontriamo Oscar Wilde (Rupert Everett) negli ultimi istanti della sua vita, mentre ricorda i giorni di gloria a Londra, quando, felice, inventava e raccontava la fiaba di The happy prince ai suoi figli adorati.
Il presente non è che un’eco del suo passato, così torniamo indietro, quando Wilde giunge in Francia, aiutato da Robbie Ross (Edwin Thomas) e da Reggie Turner (Colin Firth), gli unici che gli rimarranno accanto fino all’ultimo, cercando di aiutarlo anche economicamente nella speranza, un giorno, di vederlo tornare alla ribalta.

Gli occhi di Oscar Wilde sono pieni dei suoi trionfi teatrali e le sue orecchie odono solamente gli applausi e le risa suscitate dalle proprie opere. Tutto ciò, però, è lontano ormai: vive sotto falso nome, poiché il suo è macchiato indelebilmente dal processo che l’ha portato a scontare due anni in carcere ai lavori forzati. Settecento giorni di pena che gli sono costati ogni cosa, ogni affetto, ogni ammiratore, ogni sogno. Non ha più nulla, come lui stesso dice all’amico Reggie Turner, neanche più la paura gli appartiene più.

Un breve ristoro, fatto da una pace effimera e dall’uso di cocaina, lo trova unicamente tra le braccia di un ninfetto, un ragazzino che si vende a lui per denaro. Il ninfetto, e il di lui fratello, ascoltano estasiati la favola di The happy prince, immedesimandosi nella povertà che la rondine vede volando.

Quindi, come la statua coperta d’ oro, anche Wilde va progressivamente perdendo il luccichio che l’aveva ricoperto, mostrandosi al mondo solo con addosso la sua ironia e il suo genio.

La figura della moglie Costance (Emily Watson) sembra quasi una martire, sia per la sua condizione fisica, prostrata da una malattia all’epoca sconosciuta, sia per la sua condizione sociale; ella, assieme ai figli, è esclusa dalla società, che fino a poco tempo prima idolatrava il marito e che ora respinge non solo lui, ma anche tutta la sua famiglia.


Incapace di incontrarlo, perché preoccupata di concedergli il suo perdono, Costance si chiuderà nel dolore di chi ha amato senza essere stata ricambiata, o, almeno, nel modo in cui lei desiderava.
Anche il rapporto con Lord Alfred Douglas (Colin Morgan) si sviluppa brevemente, non c’è spazio per altri, se non per Oscar Wilde. Neanche Napoli è un palcoscenico abbastanza grande perché entrambi possano risiedervi. E, nonostante Lord Alfred Douglas sia l’artefice della miseria di Wilde, proprio come il resto della buona società inglese, da vivo gli negherà qualsiasi aiuto, per poi piangerlo a calde lacrime una volta morto.

Primo lavoro di sceneggiatura e regia per Rupert Everett, il quale si cuce addosso il personaggio di Oscar Wilde conoscendone bene i lavori, sia a teatro che al cinema, come per i film, Un marito ideale (1999) e L’importanza di chiamarsi Ernest (2002), entrambi diretti da Oliver Park.
A tratti lento, il film non sembra possedere il ritmo incalzante del teatro di Oscar Wilde, perdendo un poco della narrazione, in un continuo movimento tra presente e passato, dove il futuro non è più neanche preso in considerazione.

 

Mara Carlesi