Riuscire a rendere incalzante un film intimista e ad alzare la soglia dell’attenzione degli spettatori attratti dal dinamismo dell’azione, ricavando linfa dagli spicchi di vita scandagliati dai compianti Maestri Robert Altman ed Ettore Scola per mezzo dell’impianto espressivo dell’opera corale, costituisce per l’eclettico attore e sceneggiatore Emmanuel Mouret l’occasione propizia al fine di aggiungere in cabina di regia alla commedia sentimentale Tre amiche qualcosa di rimarchevole. Ovvero che esula dall’ordinario.

Il punto è capire in cosa consiste il valore aggiunto alla scioltezza del racconto d’introspezione avvezzo ad appaiare lacrime e sorrisi, senza mai cadere nell’enfatica spettacolarizzazione dei sentimenti in ballo, e se si tratta d’un’efficace confluenza di stilemi sulla carta incompatibili, conciliati all’atto pratico da un’avvertita tecnica di ripresa in grado di riassemblare in un’ottica diversa dallo standard i compositi tratti distintivi adattandoli alla propria poetica, oppure traligna nel classico buco nell’acqua.

Il benservito rifilato, sia pure col cuore a pezzi per l’amore svanito, dall’affranta Joan al consorte Victor, in preda alla disperazione, la sua malinconica compitezza ai tavolini del locale notturno mentre stenta ad annegare l’angoscia nell’alcol, la notizia della sua dipartita, in seguito all’incidente stradale dovuto alla sbronza presa per il trasporto affettivo rispedito al mittente, la voice over del labile consorte, passato a miglior vita, non sembrano, lì per lì, esibire nessuna variante degna di nota rispetto all’effigie dolceamara degli assilli dell’esistenza. Anche l’interazione tra habitat ed esseri umani, con l’immagine di Lione e l’evasione dallo stress quotidiano della città rappresentata dalla campagna transalpina a corto dell’apporto dei paesaggi davvero riflessivi, resta piuttosto esornativa. Ad alzare l’asticella provvede il movimento di macchina da destra a sinistra, in senso contrario all’ordine naturale delle cose, che permette alla struttura a mosaico del racconto di trascendere qualsivoglia, deleterio, senso di déjà vu. Il preannuncio dell’implicita ed emblematica inversione di tendenza innesca l’adeguamento approfondimento del ritratto muliebre delle due migliori amiche di Joan: Alice e Rebecca. L’una segretamente in crisi col coniuge Eric, così da cascare fra le braccia di un romantico pittore fuori porta; l’altra impelagata in una relazione clandestina con lo stesso Eric. L’elaborazione del lutto si va dunque ad amalgamare alla focalizzazione delle umane debolezze, alle opportune pieghe dei caratteri, a una sorta di solerte ragguaglio delle componenti manieristiche usate solitamente per approfondire quelle che Enzo Siciliano definiva le slogature delle emozioni.

Il desiderio di proseguire nella falsariga tracciata dal fragile ma premuroso marito con la figlioletta rimasta senza il supporto della figura paterna, portandola a vedere nel buio della sala le vecchie ed esilarante pochade comiche, gli intrighi, le ubbie, le inevitabili ipocrisie, gli slanci di catartica ed epidermica sincerità, le sospensioni oniriche, col fantasma di Victor sceso a più miti consigli nell’egemonia dello spirito sulla materia, che lo sprona ad amare Joan lontano da qualunque forma d’inutile possessività, pagherebbero dazio all’insalubre retorica di circostanza, fiancheggiando in modo approssimativo il rapporto tra i personaggi e lo spazio portato meglio a effetto dai prestigiosi numi tutelari assurti ad archetipi assoluti, se l’iconicità simbolica riposta nell’interconnessione tra dolore ed evasione non fosse davvero supportata dall’indubbia capacità di accoppiare il significato della condivisione e dell’astrazione alla contemplazione del reale. Avvalorata, man mano, dalla geografia emozionale sul piano dell’indagine del precipuo struggimento. Joan per il miglior amico del nuovo collega entrato a far del corpo docenti sotto shock che, dopo l’amaro divorzio, vorrebbe rimettere sù famiglia. Alice per l’alchimia ritrovata con Eric. Rebecca per un datore di lavoro capace di legittimarne la vena artistica. La condizione di esclusione del dramma e quella d’inclusione della commedia procedono perciò a braccetto. Sebbene persuada maggiormente l’analisi passo per passo della marginalità, perché chiude il cerchio in merito alla condivisione di esperienze simili, celate pure per pudore, l’inclusione che si manifesta nella commedia non paga mai dazio alla vana smania di trascendere l’occasione narrativa col contrappunto dell’ottimismo.

L’arguzia degli eventi imprevisti giustappone la congerie d’indugi ed eloquenti silenzi all’esplorazione delle sfide compiute per stabilizzare l’altalena dei batticuori. I lividi riflessi attribuiti dall’accorta fotografia, su sprone dello scaltro e sensibile regista, agli spasimi e alle nevrosi cedono quindi il passo alla speranza di risalita che cementa l’idoneo cifrario dell’anima. La gamma dei semitoni relativi all’asciutta ed empatica sequenza della tomba di Victor curata con tangibile dedizione rivela il talento dimostrato da Emmanuel Mouret illuminando le zone d’ombra. Mentre i movimenti di macchina a schiaffo da un soggetto all’altro scuotono dal soporifero torpore il pubblico allergico alle svenevolezze assicurando alla crudezza oggettiva l’approdo a una sana distanza di distacco dai vertici dello spasimo tralignati in una roboante cassa di risonanza dalle melense soap opera. La prevalenza conclusiva della dedizione reciproca sulla mortificazione sopperisce ad alcune lentezze spacciate per fascinose e alla frammentarietà altrimenti dispersiva che invece consente a Emmanuel Mouret di mettere insieme ad hoc i pezzi della sua esperienza personale con i tasselli del racconto dispiegato sul grande schermo. Garantendo all’apposita palingenesi, dall’atmosfera altresì conturbante dello straniamento al coinvolgimento dell’aura rassicurante, l’ausilio dell’ottima psicotecnica recitativa dell’intero cast. Con gli sguardi teneri ed eterei della sorprendente India Hair nei panni di Joan destinati a divenire solari in zona Cesarini. Ed è nell’interazione tra straniamento e coinvolgimento che consiste il valore aggiunto da Emmanuel Mouret ai tópoi della commedia sentimentale. La conquista conclusiva della solarità, assurta ad antidoto contro il grigiore e l’orrore del dolore, contro la rarefazione e l’isolamento, benché priva dell’omogeneità ad appannaggio dei guru della fabbrica dei sogni, lungi dal tagliare con l’accetta i fittissimi nodi che uniscono gli approcci opposti agli incubi ad occhi aperti, veicola Tre amiche nei binari del carattere d’ingegno creativo. Abituato a scernere la ricercatezza della poesia dalla scontatezza del poeticismo.


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