Tutto il mio folle amore: varianti umoristiche ed enfasi sentimentale per Gabriele Salvatores

La marcia indietro di Gabriele Salvatores in Tutto il mio folle amore costituisce materia di riflessione sul giro di boa compiuto dagli artigiani, baciati dal successo commerciale, per essere definitivamente eletti ad autorevoli artisti.

Il regista partenopeo, trapiantato a Milano, dopo aver seguito la falsariga della commedia all’italiana col trittico composto da Marrakesh Express, Turné e Mediterraneo, culminato con l’inebriante Oscar come miglior film in lingua straniera, ne aveva smentito gli stilemi nell’inane tentativo di alzare il tiro.  Ed è invece lo scandaglio dell’ennesima turné in chiave dolce/amara, secondo gli stilemi della geografia emozionale, che permette di scoprire l’essenza di posti sconosciuti in partenza, ad animare un ritorno a Canossa senza spargimenti di cenere in testa. Bensì dando a intendere di saper sempre far ridere amaramente e far riflettere ironicamente.

Il tema dell’autismo congiunto al desiderio di affrancarsi dal peso dell’angoscia, cementato dai tratti distintivi del road movie, gli offre l’occasione di coniugare l’illusione dell’avventura con i voluti scompensi nel ritmo in grado d’impreziosire il senso più compiuto dell’aura contemplativa.
L’occasione risulta, però, fatalmente persa. La trasposizione sul grande schermo del romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas risente dell’accidia dell’ingegno attinto al Barry Levinson di Rain man – L’uomo della pioggia, ad Amalric con l’apologo Tournée e ad Emir Kusturica col bellissimo Il tempo dei gitani.

L’inverso percorso, dall’Italia alla terra dei Balcani, aggiunge poco o niente alla medesima falsariga. Al pari delle varianti umoristiche accostate all’inevitabile sarabanda di soste, attese, speranze connesse alle performance melodiche di un padre debosciato in cerca di riscatto etico in zona Cesarini. Nonostante la destrezza al riguardo dell’intenso Claudio Santamaria, di una spanna sopra rispetto all’istrionico Diego Abatantuono, che nel ruolo del secondo marito della mamma dell’adolescente affetto dal disturbo del neuro sviluppo si muove alla stregua di un elefante tra i cristalli dei semitoni intimi, la creatività narrativa lascia davvero a desiderare.

Il confronto tra i diversi caratteri paga dazio, a lungo andare, all’enfasi di maniera. Estranea, sia in prassi ché in spirito, all’erudito Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli. Dove il sincretismo d’intensi accordi sonori ed elegiaci disaccordi coglie l’anima dei luoghi visti solo attraverso il finestrino di un’automobile in mezzo al baleno alienante delle luci notturne. Salvatores, al contrario, pure in pieno giorno, brancola nel buio nel vano sforzo di coniugare l’arcinota gamma di motivi psicologici a scenari naturali capaci sul serio di trarre linfa dalla partecipazione nevrotica di un giovane schiavo degli scoppi d’ira.

Il timbro spiccio ed esornativo, adottato per evitare di cadere nei piagnistei del melodramma d’impegno civile, scade, così, nel bozzetto dell’infruttifero disimpegno. Alcuni siparietti distensivi strappano, qua e là, qualche franca risata in Tutto il mio folle amore. Anche se tutte le gag di alleggerimento, volte talora ad allungare il brodo, celano – richiami ed echi compresi – la penuria di un’autonoma sagacia intenta a scoprire l’arcano peso dell’incomunicabilità, la forza aggregativa della musica e le parole delle canzoni legate a dolci ed ermetiche verità.

 

 

Massimiliano Serriello