L’approccio immersivo insito nel denso ed evocativo rapporto tra cinema e territorio consente al percorso di formazione dei dramedy incentrati sull’età verde d’aggiungere al valore terapeutico dell’umorismo, allergico alle lagne di qualsivoglia soap opera, la forza significante della geografia emozionale. Per garantire un sincretismo stilistico ed espressivo così avvertito alla scrittura per immagini già impreziosita dalla fascinazione feticistica, cara agli spettatori avvezzi a divenire cinenauti, immedesimandosi tanto nell’interazione tra habitat ed esseri umani quanto nell’acquisizione di conoscenze del protagonista con la goccia al naso una volta concluso il percorso di formazione connesso ai vincoli di sangue e di suolo, occorrono autori esperti, che la sanno lunga, o anche una regista alle prime armi può dire la sua suscitando un certo interesse sui viaggi di apprendimento veicolati dall’ordine naturale delle cose e dal senso d’appartenenza?
L’esordio dietro la macchina da presa dell’intraprendente Louise Courvoisier in Tutto in un’estate prende piede sul grande schermo per mezzo d’un alacre scandaglio ambientale che pone in evidenza l’abitudine degli autoctoni dai gusti semplici a stare all’aria aperta, ricavando linfa dal piacere di sentire il sole estivo sulla pelle al posto del vento che taglia le guance, senza pagar dazio a passaggi cartolineschi ed esornativi. Concernenti l’effigie di laghi, cascate, percorsi per mountan bike, attività acquatiche, tipo il kayak, sulla falsariga delle banalità scintillante della mera propaganda destinata ai turisti.

Louise Courvoisier, nativa di Ginevra in Svizzera, traendo partito dalla conoscenza diretta del territorio eletto ad attante narrativo colmo di significato, sito al confine con la Francia, veicola lo sguardo degli spettatori attratti dal processo d’identificazione con le location che riverberano appieno i timbri antropologici ed etnografici dal punto di vista della classe operaia nell’universo bucolico preso in esame. Insieme all’ascendente esercitato nel clima della festa, come antidoto contro le fatiche giornaliere, dalla goliardia, dalla voglia di prendersi in giro, per stimolare l’arguzia reciproca, dal libertinaggio e dal nudismo. Infatti la sequenza iniziale del diciottenne Titone senza panni e le braccia alzate in segno di trionfo, con la sigaretta in bocca, riverbera perfettamente lo spirito vitellonesco, soggetto a un percorso di crescita scevro dalle secche dell’infertile enfasi di maniera, che antepone al mix di apparenze ed esteriorità di chi veleggia in superficie il rapporto di coalescenza di chi al contrario va in profondità. Ed è lo scopo precipuo di Louise Courvoisier spingendo il pubblico alla scoperta dell’alterità, ovvero di qualcosa di diverso dalla propria realtà destinato step by step a divenire familiare, quello di annettervi lo stream of consciousness sui generis del protagonista fulvo. Col padre beone, la sorellina complice ed eterea, sciatto nel portamento, schietto nei modi, sensibile nei confronti dei profili di Venere, intento ad anteporre la spensieratezza del divertimento all’assunzione di responsabilità. La dipartita del babbo scapestrato, che costringe il figlio altrettanto scapestrato a darsi una regolata, ponendosi cruciali interrogativi, sposta l’emblematico focus dell’attenzione dalle alcove fugaci, dai volti neolitici degli adulti ormai estranei ai raid notturni degli imberbi scavezzacollo, dall’illustrazione mordace dei paesaggi collinari con le gare col rally lungo le strade sugli scudi all’elaborazione del lutto.

Il passaggio risulterebbe programmatico, evidenziando l’inesperienza dell’autrice avventizia con poche frecce al suo arco, se i trucchi tecnicistici adottati dapprincipio per riuscire ad appaiare la riflessione sul dolore alla capacità invece di riflettere ironicamente sulla reazione al medesimo dolore non cedessero la ribalta all’intelligenza di trattare temi complessi e pesanti in modo leggero e sagace. La virtù di scrivere con la luce dell’abile fotografia, che promuove gli elementi figurativi riguardanti l’avvicendarsi d’interni domestici ed esterni panteisti ad avvolgenti ragguagli introspettivi, merita una lode incondizionata. Persuade meno il ripiego in stilemi pseudo-documentaristici per esporre, coerentemente con la vita quotidiana della working class divisa tra alienazione ed estroversione, la preparazione palmo a palmo del formaggio Comté che fa parte integrante della cosiddetta famiglia delle groviere. Ken Loach ne La parte degli angeli aveva aperto lo scrigno della favola dei sogni, avvezza ad accogliere principalmente gli incubi a occhi aperti della crudezza oggettiva, alla scoperta carezzevole ed empatica della quantità di whisky che evapora dai barili in legno nell’arco di tempo della maturazione in grado di fornire lo sprone ideale a un gruppo di ragazzi con la testa per dividere le orecchie condannati alle ore di servizio sociale per mutare segno snudando il carattere. Dopo aver snudato le qualità nascoste, al grido di “Porca vacca!” che dà il titolo originale al film, Titone snuda il carattere in un contesto provinciale troppo condizionato però dagli stilemi esplicativi del cinema cinema vérité per aggiungere alla contemplazione del reale l’esplorazione poetica dell’umana imperfezione in cerca di riscatto. Ad appannaggio dell’ineguagliabile Ken Loach. Aedo indiscusso della working class anglosassone.

Gli individui semplici ripresi per lo più di fianco in Tutto in un’estate tendono comunque ad anteporre il trattamento sbrigativo della descrizione sommaria al trattamento misterioso della poesia sia pure sanguigna e antiaccademica. Che mostra in ogni caso, razionalizzando l’assurdo, come le cadute, i ruzzoloni, le imperfezioni diano magicamente il via al percorso di maturazione. Forse per Louise Courvoisier i campi lunghi, giustapposti agli sguardi eloquenti della sorellina Claire che aiuta Titone a imparare passo per passo l’arte di ottenere con la coagulazione del latte l’ambito formaggio per partecipare al concorso imminente e invertire l’infausta rotta, hanno maggior peso rispetto all’attento ritratto collettivo d’una società contadina avversa alla cinica civiltà dei consumi. Ad andare sotto pelle provvede lo stesso la solerzia di congiungere il lato giocondo a quello psicologico, l’aspetto cerimoniale del concorso all’atteggiamento confidenziale dei due orfani, l’inquadratura di quinta di Tito a piedi con Claire sulle spalle a quella del ragazzo divenuto uomo in bicicletta con la forma del formaggio simbolo di tradizione sempre sulle spalle. Nel finale, mentre gli incidenti di rally con le auto decise a rimettersi ugualmente in pista nelle strade di campagna a dispetto dei ruzzoloni chiudono il cerchio, l’inno alla caparbietà è cementato dal mix di prove ed esperienze legate specialmente al luogo identitario. Tutto in un’estate taglia così il traguardo dell’affresco malincomico che conquista il grande schermo sulla scorta dell’ironia, dell’arguzia e dell’audacia di accostare stilemi dapprincipio diversi. Con l’ausilio determinante del bravissimo Clément Faveau e dell’identità specifica assunta dal territorio del massiccio del Giura assurto a location. Per impossessarsi pure poeticamente del grande schermo, sull’esempio di autentici maestri della levatura di Ken Loach estranei agli effetti calcolati delle pellicole a tema, Louise Courvoisier ha ancora tanta strada da fare. Ma l’amore per i luoghi dell’anima da scandagliare per i cinenauti, ivi compresa la sovraindicata strada da fare, sono dalla sua parte. Il tempo non le manca.
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