Un conto per una regista esordiente come l’ambiziosa Anne Sophie Bailly in Tutto l’amore che serve è la scelta deliberata ed eminentemente speculare di connettere due tratti distintivi agli antipodi tra loro per conferire attraverso il poliedrico contributo della forma una maggiore densità contenutistica alla messa in scena del tema trattato, ovvero quello del ruolo materno nei riguardi d’un figlio disabile ormai adulto nonché del legittimo bisogno di anteporre talvolta ai vincoli di sangue la sana voglia di rimettersi in gioco nella sfera dell’attrazione per un partner estraneo all’impasse di qualsivoglia ricatto morale, ad opera dell’interazione dell’emblematica scrittura per immagini con lo spettacolo sia pure di secondo piano dell’avvincente recitazione.
Un altro paio di maniche sono invece le scollature in cui s’imbatte chiunque voglia approfondire un’esperienza, tipo la condizione gravosa della genitorialità stretta d’assedio dalle chance limitate nella vita di madre single dal ragazzone cresciuto portatore di handicap, senza ricavare linfa dietro l’impegnativa macchina da presa in termini di sperimentazione e competenza dall’idonea compattezza strutturale.

Occorre quindi capire se lo spettacolo di primo piano costituito dalle scelte maturate ex ante e in itinire in cabina di regìa ceda dapprincipio la ribalta al gioco fisionomico della versatile attrice francese Laure Calamy, dando poi la precedenza allo spessore della realtà in ballo con l’ausilio dei profondi chiaroscuri psicologici ed evocativi conformi ai rivelatori movimenti di macchina, in virtù della legittima ed erudita giustapposizione oppure del goffo cerchiobottisno. Nell’incipit l’effigie dell’ennesima festa delegata all’evasione dagli attanaglianti assilli giornalieri, il bacio spontaneo, l’avvolgente richiamo dei sensi, l’impiego reiterato della correzione di fuoco con l’avvicendarsi d’immagini ora nitide ora sfocate al fine di vederci chiaro nel passaggio dalla libidine all’attaccamento affettivo nei confronti del garbato partner occasionale, l’altalena degli stati d’animo nell’appartamento dove il linguaggio canoro dei pappagalli in gabbia si va ad appaiare agli scatti di gelosia del trentenne Jöel all’indirizzo dell’ospite indesiderato veleggiano sull’infeconda superficie dell’indagine introspettiva tirata via alla bell’e meglio. Al contrario della marcata prova recitativa di Laure Calamy. Che aderisce sin troppo al personaggio della donna di mezza età. Divisa tra la gestione del problematico Jöel, vittima dell’alterazione del sistema nervoso, e l’indefessa volontà di aver cura della propria persona. Di esibire grazia, sensualità, femminilità ed empatia lontano dal canonico “ubi maior, minor cessat” relativo allo sforzo profuso a fronteggiare le difficoltà d’apprendimento di Jöel, ripudiato appena nato dal padre, nelle dinamiche sociali d’ogni giorno. L’eccesso di bravura della dilagante Laure Calamy, che apre addirittura i cassetti dell’inconscio nel rivendicare il diritto alla normalità negatole dall’incombenza di sostenere step by step sfide pratiche ed emotive ai limiti della sopportabilità pur di vedere Jöel acquisire una sorta d’autonomia, vampirizza intere sequenze. Finendo per privilegiare l’enfasi di maniera, estranea alla sicurezza di taglio ad appannaggio del dotto lavoro di sottrazione, rispetto alla sacrosanta egemonia dei semitoni sugli accenti. Che necessita dell’indispensabile sostegno poetico dell’aura contemplativa.

La performance della protagonista, sebbene lasci spazio a qualche silenzio eloquente nel mix di clamori ed esclamazioni in difesa dell’identità femminile, attanagliata dal surplus del senso di responsabilità per il sangue del suo sangue coi nervi scoperti, cade infatti nel vano poeticismo. Un pessimo rimpiazzo della meritevole ed epidermica capacità di razionalizzare l’assurdo nella palingenesi della trama d’un’opera d’impegno che sfugge ai limiti delle pellicole a tema in un’accozzaglia didascalica d’informazioni per gli spettatori ignari di determinate dinamiche domestiche sul versante dei problemi risolti nell’adattamento a contesti nuovi ed ergo coinvolgenti. Di conseguenza l’interazione tra habitat ed esseri umani, nella città di Créteil, vicino Parigi, e nelle trasferte predisposte per staccare la spina dai problemi col beneplacito degli spensierati congressi carnali, non consente quasi mai ai luoghi eletti ad attanti narrativi colmi d’indubbio significato di riflettere sul serio il turbinio dei legami funzionali che rischiano di diventare disfunzionali. L’ambito prossemico della comunicazione e il rovescio iniziale della medaglia dell’incomunicabilità quindi restano slegati. Al contrario nell’atto successivo il frutto degli sforzi della mamma per consentire a Jöel, impiegato in una struttura per individui problematici, di beneficiare d’un’esistenza simile sotto alcuni aspetti ai cristiani esenti da disturbi cognitivi, si lega appieno all’intelligente antiretorica. La scoperta dell’imminente paternità, che per l’instabile seppur premurosa Mona significa divenire presto nonna, equivale a un’apprezzabile inversione di tendenza dal punto di vista stilistico ed espressivo. Il colpo di gomito connesso all’immedesimazione sopra le righe di Laure Calamy negli alti e i bassi di Mona cede così di schianto al carattere d’autenticità frammisto all’alternanza sotto le righe tra notazioni ambientali ed esami comportamentistici.

A lungo andare gli eventi interiori ed esteriori riscontrabili nella peculiare elaborazione del lutto per una morte improvvisa e nel discorso funebre di Jöel estrapolato dai sacri testi (“Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo per buttar via. Un tempo per strappare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace”) snuda insieme all’alienazione dell’eterno Peter Pan la voluttà d’integrazione. Inserita nell’illustrazione realistica e affettuosa, persino mordace in alcuni frangenti, dell’identità sociale d’un disabile in cerca di riscatto che legge con voce poco ferma ma umanissima l’articolato pensiero in onore dei cari estinti. Ed espone dunque tanto l’ambita inclusione quanto la carezzevole autodeterminazione al valore catartico dell’umorismo. Contraddetto dalla previa esacerbazione dei sentimenti muliebri e dalla torrenziale psicotecnica di Laure Calamy. Le velleità registiche all’opposto dell’avventizia Anne Sophie Bailly, del tutto priva dell’avvertito carattere d’ingegno creativo dei Maestri dell’anima che scandagliano i rapporti sentimentali-familiari inaspriti dai disturbi del neuro-sviluppo duri a guarire completamente convertendo la sgradevolezza della crudezza oggettiva nella saldatura del cerchio garantita dall’incanto soggettivo, comportano quindi lo sviluppo diseguale delle fasi topiche della narrazione. Alla superficialità dell’esclusione iniziale di Jöel dalla vita di tutti i giorni, monopolizzata dalla sublime ma stringi stringi pleonastica gigioneria di Laure Calamy, corrisponde perciò la profondità conclusiva in merito all’inclusione suggellata dalla genitorialità condivisa con l’anima gemella. Vittima della medesima condizione. La prova degli interpreti di fianco, disabili cognitivi anche fuori dai rispettivi ruoli affrontati con ammirevole pathos, risulta assai misurata. L’agnizione finale, sebbene meritevole di stemperare la pesante contraddizione tra essere ed esistere nella virtù di affidare il peso emotivo della conclusione alla levità d’un controcampo pungente e sobrio, non basta però a sottrarre Tutto l’amore che serve alla deleteria contraddizione in termini. Dovuta all’imperizia di accostare uno show roboante di presa immediata al pudore d’un quadro esistenziale avvezzo ad assorbire qualunque fronzolo od orpello inutilmente lezioso.
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