Umami – Il quinto sapore: il mix di verità ed empatia di Angelo Frezza

Ogni opera audiovisiva che affronta il tema del dolore merita rispetto al di là dell’orientamento ideologico di chi cerca di farlo sulla scorta della propria cifra stilistica. Frammista al bagaglio d’idee ed esperienze. Al di là dell’estrazione sociale dell’artefice. Al di là delle discipline di fazione, delle prese di posizione. Pro o contro.

Ciò vale anche per Umami – Il quinto sapore. In cui il regista, sceneggiatore e produttore Angelo Frezza adotta la struttura narrativa cara ad Altman ed Ettore Scola. Autori con la “a” maiuscola in grado di andare oltre quelle che Jim Morrison chiamava le scorciatoie del cervello.

Il compito di qualsiasi critico cinematografico, e di qualsivoglia persona chiamata a giudicare l’operato altrui nel campo dell’arte in generale, pure culinaria, e della comunicazione, consiste nel porsi in modo schietto coi lettori. Secondo le personali tecniche di argomentazione. Magari anch’esse non esenti da qualche appunto poco entusiasta. In merito alla scelta delle parole, che, specie per Nanni Moretti in Palombella rossa, sono importanti. Non c’è bisogno d’ispirarsi ad Anton Ego in Ratatouille per capire che l’opera più mediocre costa maggior fatica che scrivere la migliore delle recensioni. Né occorre trarre partito da Alberto Moravia, che da critico metteva da parte la corazza caratteriale, e con essa i pregiudizi alieni alla aletheia, intesa come la verità sostanziale dei fatti, per formulare un giudizio, non scientificamente esatto (l’infallibilità spetta al Padreterno all’ordine naturale delle cose), però intellettualmente onesto. Scevro cioè da malumori malcelati. Velleità laceranti. Spirito di rivalsa. Scarsa empatia. In Umami – Il quinto sapore la scrittura per immagini mandata ad effetto da Frezza costeggia la verità sostanziale dei fatti? Non la sfora nemmeno di striscio? O la coglie appieno? Come fece lo sceneggiatore Mattia Torre, morto di cancro quasi tre anni fa, redigendo le sceneggiature della serie televisiva La linea verticale – per cui ha curato anche la regìa basandosi sull’esperienza maturata come ricoverato presso la sanità pubblica alla luce sia degli aspetti tragici congiunti all’operazione subìta nel tentativo di arrestare l’avanzata delle cellule maligne sia degli aspetti divertenti connessi agli aspetti spesso involontariamente ridicoli ed ergo spassosamente sdrammatizzanti – e il dramedy (tanto per cambiare) Figli. Bisogna quindi riconoscere a Mattia Torre il merito, prima di lasciare questa valle di lacrime, d’aver saputo convertire nella scrittura per immagini del piccolo e del grande schermo il carattere d’autenticità dell’esperienza. Vissuta sulla sua pelle. Ovvero lo stare in piedi, verticalmente, anziché stare orizzontale, con i piedi in avanti, alla stregua dei trapassati chiusi in una bara o distesi su un letto.

Poi se il carattere d’autenticità si riesce ad appaiare col carattere d’ingegno creativo è un altro paio di maniche. La linea verticale e Figli sono impersonati ambedue da Valerio Mastandrea. Nondimeno, al di là dell’apporto senz’alcun dubbio prezioso fornito dal gioco fisionomico dell’attore in veste d’alterego dell’autore defunto, La linea verticale funziona in virtù del mix d’autenticità ed estro. In Figli, invece, l’ingegno latita. Mentre abbondano i colpi di gomito relativi a un ambiente distante da quello vissuto dagli spettatori estranei alla realtà elitaria dei radical chic. In quanto l’esperienza comportata dalla genitorialità trascende, o almeno dovrebbe trascendere, i preconcetti sul conservatorismo e sull’idealizzazione della famiglia. In antitesi con la demonizzazione dei consorzi domestici oppressivi di Marco Bellocchio ne I pugni in tasca. Con Umami – Il quinto sapore la schiettezza dell’ispirazione prevale sull’estro, identificabile altresì nel rapporto tra immagine e immaginazione? O sopravviene la pigrizia delle idee prese in prestito sul versante della forma a numi tutelari altisonanti col risultato di pagare dazio all’impasse dei nani sulle spalle dei giganti? Il contenuto, in conclusione, è l’unica cosa che conta sul serio? L’incipit non fornisce risposte in merito. O, se non altro, non risponde in maniera esplicita. Nelle battute iniziali comunque le pieghe programmatiche, estranee all’attitudine d’ogni scrittura per immagini di dire a nuora perché suocera intenda in base perciò alla furbizia di eludere il diniego dei clan di partito, hanno il sopravvento; il critico impersonato da Angelo Orlando scopre di aver contratto la SLA. Che ha ucciso persone famose e individui sconosciuti: la commare secca, la morte secondo i romani, non guarda in faccia nessuno. Il codice deontologico impone al dottore di parlar chiaro. Senza girarci attorno.

D’altronde le parole, in questi casi, non sono importanti solo per i pazienti sui carboni ardenti che credono nel sol dell’avvenire. O si rammaricano che sia divenuto una chimera. Sono ugualmente importanti per i seguaci dell’egemonia dello spirito sulla materia. Ovviamente non si riscontra nulla di lontanamente equiparabile a La linea verticale: il trattamento risulta superficiale e sollecito rispetto all’attenzione dedicata da Torre all’aspetto negativo nonché al risvolto diametralmente opposto della degenza in ospedale nella speranza – che come è noto a tutti è l’ultima a morire – di stemperare nell’ironia l’angoscia onnipresente guardando alla malattia alla stregua d’una possibilità di conoscersi attraverso un’ottica diversa. Qual è l’ottica attraverso la quale un critico, abituato a giudicare la qualità del carattere d’autenticità e l’ingegno creativo degli altri, che si prestano volentieri o mal volentieri secondo i casi, guarda alla propria malattia, a qualcosa che lo tocca da vicino al punto da fargli sentire la morsa gelida sul collo della commare secca? Non tutti i registi intendono sollevare degli interrogativi per mezzo della narrativizzazione dello stile. Chiarito ciò, se quello sollevato fosse stato il problema che stava più a cuore a Frezza non avrebbe scelto una narrazione che alterna le vicende del critico culinario Alessandro, affetto dalla malattia neurodegenerativa progressiva dell’età adulta, alle ubbie e agli slanci dell’ex ragazza dell’Anton Ego nostrano, Anna Cardinali, un’editrice dall’ottimo fiuto invaghitasi nel frattempo dell’avventizio romanziere Luigi. L’icasticità di entrambe le personalità sono dispiegate a distanza. L’una dall’altra. Così lontano così vicino di Wim Wenders, le mire filosofiche, il territorio eletto a location e ad attante narrativo ed evocativo non passano neanche per l’anticamera del cervello a Frezza. Gli preme, al contrario, il valore terapeutico dell’umorismo. Ciò non significa che sappia seguire le orme della Commedia all’italiana. Con Ettore Scola tra i capofila. Insieme a Mario Monicelli e Dino Risi. Intenti a far ridere amaramente e riflettere ironicamente.

L’impresa è riuscita invece a Mattia Torre con La linea verticale. Gli ammaestramenti autocrati ed eccentrici del critico Alessandro nei riguardi di un allievo con la goccia al naso, alcune tecniche di straniamento che ne colgono il timor panico prima dell’interrogazione in presenza degli altri proseliti, le modalità esplicative sul quinto sapore del titolo, le risposte agli interrogativi con cui il discepolo (c’è l’umami nella caponata?), viceversa, non toccano la vetta dell’iperbole. Non collocano Umami – Il quinto sapore nei moduli degli apologhi culinari mischiati alle note intimiste conformi a Mangiare bere uomo donna di Ang Lee. Né seguono la falsariga dei cancer-movie al femminile come Fiori d’acciaio di Herbert Ross. Che fanno ridere tra le lacrime. Senza credere d’immaginare. O immaginare. Sull’onda dei registi visionari. Frezza tocca in ogni caso sporadici punti nevralgici. Specie col movimento di macchina a schiaffo in cucina. Da sinistra a destra. Mentre Alessandro spiega ai convenuti a giudizio l’alchimia di determinati sapori. L’egoismo di Anna, il rammarico, l’obbligo, dopo la dipartita del fratello, d’occuparsi dell’irritabile nipote, afflitta dai disturbi alimentari, non praticano il grottesco. Né si vanno ad amalganare all’apparizione pseudo felliniana in un set fotografico terrorizzato dalle bizze del presunto maestro orientale. Il volto sofferto ed emaciato di Angelo Orlando emana, all’inverso, una fragranza vita. Un’ironia sottesa. Persino un’autoironia. Peccato che, senza la guida dietro la macchina da presa di un autore che conosce direttamente la materia rappresentata, Umami – Il quinto sapore – dal 9 Dicembre 2021 sulla piattaforma Cinemagia Online – si affidi allo spettacolo di secondo piano della recitazione. E non basta a sopperire ai controsensi della trama, ai trapassi di tono, alle tecniche di riprese agli antipodi. Manca, insomma, coesione. Ma quella dipende dalla sensibilità e dall’ispirazione necessarie ad appaiare, insieme al dolce, l’amaro, il salato e l’aspro, l’emblematico quinto sapore. Quello della persona con idee chiare, estro ed esperienza. In altre parole l’autore. Vero.

 

 

Massimiliano Serriello