È l’ennesimo film su commissione Un anno con Salinger, abile, stringi stringi, solo ad adattare la trasposizione dell’omonimo romanzo autobiografico di Joanna Rakoff alle singolari analogie, fatti i debiti distinguo, col campione d’incassi Il diavolo veste Prada? O, al contrario, l’alacre regista canadese Philippe Falardeau – già passato alla corte statunitense, dopo la nomination all’Oscar ottenuta per l’asciutto ed emozionante dramedy Monsieur Lazhar, dirigendo l’umanissimo affresco sportivo a stelle e strisce The Bleeder – alle strategie di marketing non ci pensa affatto?
Il compianto scrittore e critico cinematografico Alberto Moravia era convinto che i film commerciali fossero noiosi, in quanto votati al raggiungimento del successo di pubblico, al vil denaro insomma, al contrario dei film d’autore meritevoli d’innescare l’aura contemplativa ad appannaggio della poesia anziché le strategie elaborate per convertire i riscontri passati al box office in trionfi futuri al botteghino.
Innanzitutto nel tradurre nella peculiare scrittura per immagini la biografia di Joanna, giunta dalla provincia alla Grande Mela alla scoperta per così dire dell’alterità rappresentata all’epoca degli anni Novanta dall’anacronistico ufficio dell’agente letteraria del celebre e schivo romanziere yankee J.D. Salinger, Falardeau è partito dal presupposto che i film d’autore sono anche commerciali allorché approdono nelle sale cinematografiche. E ancor più nel mercato secondario di sbocco. L’home video. Che frutta soldi a palate. Lo stesso vale per i libri, pure di poesia, che esprimono certamente un punto di vista sul mondo scevro in partenza dal calcolo pecuniario; viceversa quando in seconda battuta sono lanciati sull’apposito mercato dagli agenti – per mezzo di opportune ed elaborate strategie – e arrivano sugli scaffali dei negozi, diventano commerciali. C’è poco da fare. Negare l’evidenza è ridicolo. Ed è appunto, nonostante l’apparente bisticcio della parola, il ridicolo involontario la chiave di volta. Il buon senso d’ascendenza popolaresca, che fa difetto agli intellettuali o pseudo tali votati all’atomismo sociale sul piano politico, in nome dell’assurdo livellamento egualitario, con buona pace dei meriti stabiliti dall’ordine naturale delle cose, per poi scindere la cultura alta dalla cultura bassa per conseguire elitarie patenti di presunta intelligenza, non paga, infatti, dazio ad alcun tipo di contraddizione. Il timbro stilistico con cui Falardeau ha voluto esporre questo concetto – insieme ai sapidi esami comportamentistici tradotti in battute al vetriolo e associazioni oniriche in merito all’esperienza della futura scrittrice Joanna come assistente dell’agente Margaret Qualley – è un altro paio di maniche. In Monsieur Lazhar il trauma, ricondotto allo shock d’una classe di studenti undicenni che trova la maestra impiccata, dava avvio all’uso dei semitoni. Pronti ad accompagnare la trama nei binari dell’antiretorica. Snudando, palmo a palmo, l’anima, il dolore nascosto, l’umanità di Bachir Lazhar. L’algerino emigrato a Montreal, in Quebec.
Con The Bleeder le emozioni ora sommesse ora spicce ed energiche, aliene alle secche dell’enfasi che spinge il pubblico dai gusti semplici a tirar fuori il fazzoletto, si andarono ad amalgamare alla pittura d’ambiente: Bayonne – la città natale del peso massimo Chuck Wepner soprannominato “il sanguinolento” che sul ring non arretrò di un passo dinanzi al campione Muhammad Ali, ispirando la parabola dell’indomito figlio di Philadelphia, Rocky Balboa, per la gioia dei cinefili allergici alle elucubrazioni – viene scoperta nei palazzi, negli appartamenti, nei consorzi domestici, dove il boxeur è una frana, nei bar, a caccia di profili di Venere, nei parchi, all’aperto, sulla scorta dell’intrinseco, garbato, sussurrato, riscatto etico. La geografia emozionale in Un anno con Salinger parte, invece, in discesa. Gli elementi ambientali degli interni, con l’ufficio retrò in legno, le fotografie degli autori letterari sulle pareti, le macchine da scrivere old style in bell’evidenza, i computer banditi dalla ieratica Margaret, prevalgono sugli esterni. New York viene data per scontata: è una metropoli senz’alcun dubbio affascinante, con un’identità in teoria già ben distinta, specie per quanto concerne l’Ottava Avenue sita a nord, nel cuore di Manhattan, sotto la stazione della 59th Street-Columbus Circleed, ed esercita una fascinazione mista a terrore agli occhi di Joanna. Ma tutto qui: la capacità del territorio eletto a location di acquisire lo spessore di un autentico personaggio è ridotta al lumicino. Nonostante l’impegno speso per rievocare il 1996 e l’impatto di Internet nell’universo della comunicazione ed ergo nell’habitat newyorchese. Ricostruito per intero, a parte la strada attigua alla vetusta agenzia letteraria, nell’inadatta Montreal. Alla partenza col piede sbagliato (sarebbe stato curioso assistere a un apologo ironico sull’ambientamento nella città, con tanti incanti e altrettanto vermi, d’una provinciale munita di lettere ed empiti spontanei sulla falsariga del libro La scoperta di Milano di Guareschi coniugato al femminile in America) seguono alcuni momenti molto riusciti. All’insegna dei cortocircuiti onirici. Estranei al timbro solenne, ed esoterico quasi in certi contesti, delle parabole nordiche. Joanna, chiamata a rispondere ai fan di Salinger, li visualizza. Entra in empatia con loro. Che negli appelli allo scrittore del cuore, finiti al macero, si rivolgono alla macchina da presa. Ed ergo agli spettatori. Siano essi facili all’emozione. Oppure avvezzi alle visioni d’autore. E quindi ostili alle trovate da soap opera. Destinate, nomen omen, a evaporare in bolle di sapone.
L’egemonia della forza immaginifica accostata all’immediatezza espressiva rispetto al lavoro di sottrazione, ai paesaggi riflessivi, alla virtù di arricchire l’assunto con la polpa delle dinamiche interiori, mica con la gelatina della carineria frettolosa ed esornativa, non si perde comunque in rivoli disarticolati. Talvolta affiora la velleità di trarre partito dalle chicche di Woody Allen acclimatate nell’autentica Manhattan, da Harry ti presento Sally di Bob Reiner, persino da Sex and the city, col rischio di palesare l’artificio. Schiacciato dal paragone col carattere d’autenticità. L’impasse del richiamo programmatico e inautentico ai luoghi dell’anima, da Brooklyn all’East Side, con le feste, le tendenze di punta dei velleitari scrittori progressisti che parlano dei massimi sistemi e all’atto pratico confondono l’amore con la convenienza personale cadendo nel ridicolo involontario, è sopperito dalle puntate nel fantastico. Margaret Qualley, la figlia nella vita fuori dallo schermo di Andie McDowell (buon sangue non mente), non ha nulla da invidiare ad Anne Hathaway ne Il diavolo veste Prada: così come il pugile impersonato da Sylvester Stallone necessita di stare nell’adorata palestra in Rocky II, svolgendo umili compiti pur di rimanere vicino al sogno, la sua Joanne fa la segretaria respirando a pieni polmoni l’atmosfera, specularmente simile ad Alice nel paese delle meraviglie, del santuario dell’ingegno letterario. Le telefonate con Salinger, guru gentile e misterioso, trascendono l’aneddotica dispiegata dalle figure di fianco attingendo al déjà-vu. Sigourney Weaver potrebbe vincere l’Oscar che sino ad adesso l’è sempre sfuggito in virtù della prova fornita nel ruolo di Margaret: il lavoro dell’esperta attrice su sé stessa e sul personaggio, che esiste realmente ed è perciò fonte d’ispirazione, ridona vigore ai semitoni grazie alla destrezza mimica adoperata con un lieve battito di ciglia, una smorfia appena accennata, il barlume di bontà annidato nella maschera dapprincipio imperturbabile. Ciò che perde sul versante dell’interazione tra habitat ed esseri umani Un anno con Salinger lo acquista così nello schietto mix di elaborazione fantastica ed effettiva tenerezza. Falardeau si conferma in tal modo un autore privo di pose e ricco d’idee. Alcune riverniciate di fresco. Quelle decisive pescate nel repertorio estraneo all’inerzia dei nani sulle spalle dei giganti. Ed è l’epilogo, genuinamente sentito, a misurarne la statura registica. E qua e là persino l’afflato poetico. Profuso a chiudere il cerchio. Chapeau, Monsieur Falardeau.
Massimiliano Serriello
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.