Un divano a Tunisi: una commedia malin-comica sul mondo arabo

L’esordiente regista Manele Labidi Labbé con Un divano a Tunisi vuole in primo luogo destare simpatia scandagliando il mondo arabo con gli stilemi della commedia malin-comica.

L’analisi dell’altalena degli stati d’animo che accompagna Selma nel ritorno a casa, con la classe borghese scossa dalle dispute tra progresso e tradizione, trae nerbo ed estro dal contributo vigoroso dell’indimenticabile canzone Città vuota di Mina. L’innesto dei timbri antropologici ed etnologici applica invece in pieno la tendenza a individuare delle congiunture goffe, ed ergo spassose, in contesti seri e cupi.

L’idea di aprire abusivamente uno studio da psicanalista nella terra natìa, dove la rivoluzione dei gelsomini ha lasciato strascichi polemici ed estreme incertezze, chiama in causa l’attitudine, tutta italiana, a far ridere amaramente e far riflettere ironicamente. Tuttavia la tecnica di ripresa adottata per conferire al ritratto dei personaggi bisognosi di trovare conforto nella terapia l’idoneo corollario d’ilari accenti ed empatiche sfumature presenta molteplici scollature. La mansarda dell’abitazione di famiglia diviene così teatro sia d’un ovvio gioco degli equivoci, col divano adibito all’adatto trattamento scambiato per un’alcova, sia dei siparietti farseschi in campo e controcampo sull’urgenza del dialogo. L’apposito viaggio dentro di sé paga dazio ad alcune esasperazioni macchiettistiche che mal si amalgamano all’apprezzabile eloquenza degli interludi teneri e romantici. L’ovvia galleria delle figure di fianco – dal panettiere pederasta fautore del kung fu, capace di atterrare a calci gli esponenti delle forze dell’ordine, all’estetista emancipata ma scontenta – risente dell’inane carattere spiccio.

L’approccio superficiale, anziché garantire leggerezza all’affresco colmo di crisi affettive e d’identità confuse, impedisce al valore terapeutico dell’umorismo d’incrociarsi coerentemente insieme alla parodia di grana grossa. Ritenuta una spocchiosa post-coloniale, per via dei dieci anni trascorsi a Parigi mentre il cambio di passo in patria generava profonde dissonanze, Selma ostenta sicurezza dinanzi allo spauracchio dell’alcol test ed esaspera le punture di spillo riservate ai pregiudizi. La carnevalata degli intralci burocratici, che sviliscono gli sforzi della donna per mettere in regola l’attività, risulta una mera fonte di svago. Giacché stenta ad abbinare il gusto del grottesco all’efficacia espressiva del ritratto di costume. Nonostante l’indubbio prestigio dell’interprete principale, l’avvenente ed esperta attrice iraniana Golshifteh Farahani, assai disinvolta nel passaggio dal piglio imbronciato dell’incipit allo sfogo liberatorio dei palpiti repressi, la vena graffiante gira spesso a vuoto. L’inadeguata tenuta della struttura narrativa, sprovvista dell’articolazione sintattica ad appannaggio d’una scrittura per immagini in grado d’incidere sul serio nell’introspezione, pregiudica tanto l’arcinoto spettacolo da camera – imperante ora nei consorzi domestici, ora a bordo della malconcia automobile chiamata a sostituire divani e lettini vari – quanto il prezioso ripiego degli esterni.

Le risorse offerte in tal senso dalla geografia emozionale, per offrire un’opportuna variante alla monotonia della buffoneria intrisa di elegiaca mestizia, sono dunque disperse nel vano tentativo di creare negli spettatori un’emblematica attesa connessa al paesaggio. Lontano dagli uffici amministrativi, dalla solita corte dei miracoli, dal poliziotto ligio al rispetto delle regole. Seppur trafitto dalle frecce di Cupido. Lo sfondo resta, viceversa, inerte ed esornativo. L’aderenza della colonna sonora, spesso sin troppo indiscreta rispetto al governo in filigrana degli spazi, offre parentesi energiche ed evocative. In antitesi però con l’antidoto preavvisato contro i cascami lacrimevoli. Che nel finale annacquano persino il piacere di schernire la futile voga dell’autocommiserazione. L’epilogo in spiaggia, con l’inchino sereno nei riguardi dell’inganno dell’amore e l’elogio in extremis della solidarietà, non spezza alcuna lancia a favore del superamento degli ostacoli. Ravvisabili nei fantasmi pubblici e privati. La definitiva egemonia della carineria sul tono, dapprincipio prevalente, del sarcasmo certifica semmai il velleitario cerchiobottismo di Un divano a Tunisi che tramuta in enfasi i diversi modi d’agire e di reagire alle incerte ragioni storiche.

 

 

Massimiliano Serriello