Un marito a metà: non drammatizziamo… è solo questione di corna

Autrice di Benvenuti… ma non troppo, la francese Alexandra Leclère torna dietro la macchina da presa con una nuova commedia: Un marito a metà.

La regista ha ammesso candidamente di essersi ispirata ad una propria vicenda personale consistente nell’avere avuto una relazione con un uomo sposato, venire scoperti dalla moglie di quest’ultimo a causa di messaggini compromettenti e cercare di non perdere l’uomo chiedendo alla consorte un compromesso: “E se ce lo tenessimo un po’ per una?”.

Ma, se nella realtà le cose sono sempre piuttosto prevedibili (e la Leclère venne abbandonata dall’amante, che fece ritorno all’ovile), in Un marito a metà la fantasia spicca il volo e la cineasta – anche sceneggiatrice – immagina cosa succederebbe se una moglie tradita accettasse, appunto, di dividere il marito “a metà” con la di lui amante.

Sandrine (Valèrie Bonnneton) non sembra scomporsi più di tanto dopo aver scoperto che non solo suo marito Jean (Didier Bourdon) ha una relazione extraconiugale con Virginie (Isabelle Carrè), ma ne è anche profondamente innamorato. Le due decidono, di comune accordo con lui, di spartirsi Jean: una settimana starà a casa con Sandrine, la successiva con l’amante, e così ad libitum. Sprezzante del ridicolo, il trio dichiara l’ambigua situazione a parenti, amici e persino ai due piccoli figli di Sandrine e Jean, ai quali viene letteralmente imposta, come fosse cosa normalissima, la presenza della “maîtresse de papa”.

Il film della Leclère preme forte sul pedale dell’assurdo, del paradosso portato ai limiti estremi. Di primo acchito si rimane agghiacciati da talune situazioni, a partire dai discorsi della madre di Sandrine, secondo la quale l’adulterio del proprio marito sia considerabile una bazzecola, un banale avvenimento quotidiano che non altera affatto la relazione di coppia.

Ma, come dietro l’apparente calma di Sandrine si celano intenti ben precisi, allo stesso modo dietro ogni personaggio si annidano demoni inaspettati. Le psicologie dei protagonisti mutano e si evolvono col passare del tempo, mostrando tutte le sfaccettature più brute dell’egoismo umano.
Eppure, il lungometraggio funziona proprio perché tutto è raccontato con grande leggerezza e autoironia, senza aver paura di mostrare certi particolari pruriginosi che – se si fosse trattato di un film americano – sarebbero stati oscurati in virtù di una sciocca ipocrisia che, invece, non è affatto nelle corde di Un marito a metà.

 

Giulia Anastasi