Era dai tempi dell’intenso apologo sull’identità femminile sotto scacco Offside, deciso partendo dal divieto al gentil sesso di accedere allo Stadio Azadi di Teheran ad analizzare la reazione di sei pervicaci profili di Venere fintisi uomini per irretire l’amara interdizione dinanzi al supplizio sensoriale dovuto alla reclusione disposta dalle forze dell’ordine nel recinto limitrofo dove rimbombano i cori dei supporters autoctoni frammisti a grida ora d’approvazione ora di disapprovazione in base all’andamento del match di qualificazione ai Mondiali di calcio, che l’esperto regista iraniano Jafar Panahi non rinunciava a prendere parte al cast nei panni di sé stesso buttando il cuore contro l’ostacolo, rappresentato dal governo del proprio Paese giunto al punto di bandirne ex ante qualsivoglia film, solo ed esclusivamente dietro la macchina da presa.

La Palma d’oro conquistata in Francia al settantottesimo Festival di Cannes il scorso 24 Maggio 2025 con l’applaudito giallo spurio Un semplice incidente costituisce perciò una rivincita degna d’indubbio rilievo. Tuttavia corre l’obbligo per chi è chiamato a delucidare l’intrinseco mix di messaggi sociali ed elementi espressivi di chiarire come se l’è realmente cavata l’autore con la “a” maiuscola inviso alle istituzioni patrie ad aggiungere agli sviluppi imprevisti secondo copione una morale della favola estranea all’impasse dei deleteri luoghi comuni.

La destrezza dell’arguto trapasso di tono, che spiazza qualsiasi platea ed elude dunque sulla scorta dell’irrinunciabile carattere d’ingegno creativo la convenzione di affidare a una mera categoria il compito di esporre subito la tipologia dell’opera sul grande schermo, quando nel sedile posteriore dell’automobile guidata dal flemmatico capofamiglia con la moglie in stato interessante a fianco spunta l’allegra figlioletta della coppia. L’effetto sorpresa richiama alla mente la sequenza in cui il padre scrupoloso ma noioso interpretato da Ben Stiller in I Tenenbaum di Wes Anderson si schiera da ultimo col piglio giocondo dell’incosciente nonno in grado però di convertire a beneficio dei complici nipotini il freddo tran tran quotidiano in un toccante ed esilarante luna park. A conferma della ferma intenzione di riuscire ad anteporre nell’ottica dell’opportuna soluzione di continuità l’immaginazione alla ripetizione, il prosieguo capovolge l’aria di festa in un’atmosfera luttuosa per l’innocente pupa. Scioccata dalla dipartita di uno degli imprudenti cani abituati a correre appresso alle vetture di passaggio sulle strade periferiche. Il semplice incidente del titolo, dovuto alla volontà di Dio – a parere della mamma in procinto di dare un fratellino all’immusonita discola – con un disegno ben preciso congiunto alla piega degli eventi, innesca di nuovo la virtù d’impreziosire le composite ed ermetiche emozioni mediante suoni e stridori. Ed è infatti il cigolio della protesi alla gamba dello sventurato babbo che cerca nel garage vicino una soluzione per il mezzo in panne, dopo aver investito l’incolpevole bestiola, ad aguzzare i traumatici ricordi dell’elettrauto Vahid. Torturato con la benda sugli occhi anni prima da un bieco aguzzino deciso a ricorrere ad abietti stratagemmi pur di spingere alla confessione gli odiati dissidenti.

I ruoli ribaltati dal Fato e dalla spirale della cieca vendetta pagherebbero mestamente dazio a una carica di risentimento piuttosto ovvia se l’insinuarsi del ragionevole dubbio contemplato nelle aule giudiziarie non rialzasse l’asticella a un tiro di scoppio dalla definitiva capitolazione nel deserto analogo ai suggestivi paesaggi western. L’assidua ricerca, con il sospettato infasciato alla stregua d’una mummia dentro il furgone dell’indeciso Vahid in attesa di consultare altri inferociti compagni di sventura capaci nondimeno di privilegiare la lucidità necessaria a riconoscere senz’alcuna esitazione il carnefice ribattezzato Eghbal, ovvero Gamba di Legno, abbina l’arguzia di scrivere con la luce mediante l’alacre ed evocativa dinamica cromatica, avvezza a riflettere la fluttuazione degli umori in gioco tanto della coriacea fotografa di matrimoni Shiva quanto dell’inviperita sposa del servizio che vuole definitivamente fare i conti col sadico ispettore, e l’ascendente esercitato dall’ambiente circostante sui diversi esami comportamentistici. Specie dell’assillante manovale Hamid intento a tempestare lo sparuto manipolo di ex perseguitati per mezzo d’infeconde punture di spillo ai limiti del ridicolo involontario ad appannaggio degli irrecuperabili brontoloni che montano in cattedra a ogni piè sospinto per poi prendere commiato con la coda tra le gambe. Agli stilemi smontabili delle black comedy, già abbondantemente sfruttati dai differenti pamphlet satirici persuasi di smascherare le ipocrisie coinvolte negli attanaglianti dolori mai rimossi anziché ricorrere ai logori tópoi degli abituali mélo, si va ad amalgamare parecchia carne al fuoco. Dagli archetipi dell’infanzia, con l’atterrita bimba tranquillizzata dal sollecito soccorso prestato da Vahid nei riguardi della labile madre partoriente, al lavoro di sottrazione utilizzato in zona Cesarini per stigmatizzare, lontano dagli inutili segni d’ammicco, l’insofferenza che decade sino alla soglia dell’infertile isterismo.

L’egemonia del decoro della sofferenza sull’indecenza dell’insofferenza appare immemore dell’oggettività documentaria unita da Panahi agli esordi con Il palloncino bianco all’elegiaca percettività che eleva la prospettiva intimista sulla dignità dell’esistenza quotidiana ad avvolgente inno alla speranza per una lieta inversione di tendenza. Un semplice incidente non soffre comunque di squilibri a causa delle molteplici cifre stilistiche scomodate per rinverdire il leitmotiv del castigo compiuto ai danni della nemesi storica, a favore dell’ordine naturale delle cose, e accogliere in tal modo le infinite variazioni suggerite dalla sensibilità soggettiva. A scongiurare il rischio di perdere con la variabilità dei timbri antropologici ed esplorativi adottati l’acume del proverbiale disegno introspettivo, da sempre nelle corde dell’ispirato Jafar Panahi, provvede l’inobliabile epilogo. Mentre l’arcano svelato nel pre-finale immortala l’ennesimo tempo perduto di Proust, caro a Sergio Leone e Peppuccio Tornatore nella ridondanza dei nodi che vengono al pettine a braccetto con la serafica rinuncia alla rivalsa personale di Noodles in C’era una volta in America, rischiando di compromettere così nei residui patetici dell’ineguagliabile kolossal nostalgico l’incrociarsi delle linee degli sguardi carichi d’empiti diametralmente opposti ai lugubri stridori indicativi sugli scudi, il compimento di Un semplice incidente non fa una grinza. Lo spettacolo subordinato della recitazione del bravissimo Vahid Mobasseri, nelle cangianti vesti dell’omonimo personaggio che matura palmo a palmo la fragranza della compostezza mandando a carte quarantotto i miasmi dell’inesausto livore, mette nelle condizioni lo spettacolo principale della regia di raggiungere lo zenith. Con l’orientamento spaziale garantito al pubblico, teneramente ingenuo ed eminentemente avvertito, dal redivivo strumento uditivo, condiviso agli sgoccioli in chiave empatica, che ricava fulmineamente linfa dall’orientamento morale. Ghermito da un segnale apparentemente contraddittorio propenso invece ad aprire una breccia concreta alla chimera dell’intesa. Al pari del soldato blu di Balla coi lupi desideroso d’instaurare un rapporto di fiducia, al posto di quello d’empia colonizzazione, insieme ai nativi dirimpettai della Frontiera. Riletta da Panahi, nel trarre partito dai peculiari vincoli di suolo, con l’interazione tra interni risolutivi ed esterni allusivi.


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