Il cinema d’animazione, a dispetto dello snobistico diniego dei falsi esperti che scambiano per forza significante i meri fronzoli e orpelli dei cosiddetti film d’élite con gli attori in carne ed ossa, riesce ormai a catturare appieno l’interesse delle platee più avvertite.
L’esperto regista francese Jean-François Laguionie, che era riuscito con Le stagioni di Louise a scandagliare l’acre tema dell’isolamento sociale percepito dalla terza età rinvigorita nondimeno dall’affetto scolpito nella sfera celeste del devoto amico a quattro zampe, mentre con Il viaggio del principe aveva congiunto la scoperta dell’altrove a una forma di vita intelligente invisa al circolo chiuso degli sciocchi accademici di turno, cerca adesso l’ardua, se non utopica, quadratura del cerchio con l’ultima fatica. Denominata Una barca in giardino.

Il fine della rappresentazione, solo in apparenza semplice, risiede da una parte nell’approfondire la vertigine dell’avventura, evocata dai mondi lontani ed emblematici raggiungibili a bordo di un’imbarcazione avvezza alle rotte remote, e dall’altra nell’accrescere gli spazi d’ogni rimarchevole fregola in un ambito ridotto. Tipo il giardino domestico dove poter allevare galline, nell’apposito pollaio, e coltivare, insieme agli ortaggi, i vagheggiamenti uniti alla razionalizzazione dell’assurdo. Ed ergo alla poesia. Occorre quindi comprendere se lo stile grafico di Laguionie, contraddistinto dalle tonalità soffuse tipiche del colore pastello riconducibile all’idea di antiretorica, ben lungi dall’aggiungere poesia alla poesia cadendo nell’infertile ed eccedente poeticismo, disponga dei lampi d’intelligenza necessari per conferire davvero all’aura meditabonda, garantita dall’estatica tavolozza costituita in particolare dal verde menta e dal giallo chiaro, la spigliata concretezza delle opere immediate. Estranee, tanto in prassi quanto in spirito, agli ermetici rompicapo delle presunte chicche d’autore. Inclini a una contemplazione fredda degli eventi esposti tramite l’inidonea scrittura per immagini. Connessa a intrecci inutilmente complicati. Privi dell’ammaliante charme garantito dal mistero tout court. Il quadro naturalistico che troneggia nell’incipit di “Una barca in giardino” non sembra seguire i canoni dei gialli, sia pure sui generis, che tengono col fiato sospeso. Risulta, dapprincipio, tutto piuttosto prevedibile.

A partire dalla voice over dell’undicenne François, che informa gli spettatori del tentativo di disegnare il tragitto percorso dall’ombroso ma operoso padre all’indomani della seconda guerra mondiale, sino ad arrivare alla risaputa interazione tra habitat ed esseri umani. Col fiume Marna, teatro di sanguinosi scontri durante il conflitto, a un tiro di schioppo dal focolare. In provincia di Parigi. L’effigie dell’austero genitore, svelto a indossare la tuta per cimentarsi nel giardinaggio una volta varcata la porta d’ingresso, paga dazio alla modesta modalità esplicativa. A corto dunque d’estro. Il connubio dell’animazione con l’emozione allo stato puro compensa alle ovvietà mostrate sino ad allora quando il sottosuolo degli eloquenti gesti rimpiazza le suggestioni di circostanza. Il fascino esercitato dalla Settima arte, che spinge Jean-François ad accompagnare l’amorevole ed energica mamma nel buio della sala ad ammirare Gary Cooper nei panni del capitano Christopher Holden a braccetto con l’inquieta e avvenente ‘Abby’ Martha Hale interpretata da Paulette Godard nel cult-movie Gli invincibili di Cecil B. De Mille all’insaputa dell’incupito capofamiglia, contribuisce ad alzare ulteriormente l’asticella. Al pari della voluttà paterna di costruire una barca in giardino. Richiamando alla mente l’arcana voce che esorta l’agricoltore Ray Kinsella alias Kevin Costner del fantasy sportivo L’uomo dei sogni a erigere nell’ampia area coltivata a granoturco un campo di baseball per consentire al negletto campione idolatrato dal babbo defunto di calcare ancora il terreno di gioco.

Ad andare poi oltre l’inane colpo di gomito dell’implicito rimando citazionistico provvede l’antidoto contro la deleteria enfasi di maniera ravvisabile nel rumore emesso dalla sega che taglia il legno, in attesa di migliorare la tecnica sulla scorta delle nozioni nautiche acquisite lungo la strada, e nel gradevole fonema esibito dalla crosta della tradizionale baguette autoctona. La mescolanza di suoni diegetici ed extradiegetici, invece, evidenzia la penuria di risorse musicali degne d’encomio. Il nomignolo affibbiato dagli avventori del bar limitrofo al patriarca alle prese con le sponde del biliardo dette diamanti diviene, viceversa, un’esca alla quale abbocca consapevolmente il pubblico ormai stufo delle figure disegnate allo scopo di anteporre la gelatina della tenuta spettacolare affidata allo stop motion alla polpa del carattere d’ingegno creativo. Che affiora palmo a palmo. Con l’amore per lettura sugli scudi. Corroborato immediatamente dalla brezza fresca che spira da nord ovest, dai rumori reali della manifattura giorno per giorno, dalle gag visive ivi legate, dall’azione furtiva, dettata però dall’inopinata nonché sana smania d’apprendimento, dal mare in subbuglio che non si vede. Tuttavia si sente. Ed è in zona Cesarini che la maestria di togliere al visibile per aggiungere all’invisibile, alla base dell’erudito lavoro di sottrazione, tocca l’acme. Consentendo a Una barca in giardino di trarre altresì linfa dal verde smeraldo che ospita il battello fatto in casa al posto dell’oceano blu. Troppo distante per evitare di ghermire il mix d’interioritá ed esteriorità accoppiato all’atmosfera ascetica del lavoro di sottrazione nel trascinante respiro narrativo delle pellicole commerciali. Gli opposti, d’altronde, si attraggono. Per la gioia dei grandi, dei piccoli e degli incalliti seguaci della fabbrica dei sogni. In cui, sebbene serpeggi spesso una vena assai amara, il bisogno di dolcezza, racchiuso nel poco di zucchero caro a Mary Poppins, chiude i battenti.
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