Una classe per i ribelli: cornice derisoria ed empiti d’affetto per Michel Lecler

L’autorialità, scambiata dai falsi esperti per una sorta d’investitura ultraterrena, risiede nella virtù di esprimere il peculiare punto di vista sul mondo tramite la trasfigurazione dell’estro. Il regista francese Michel Lecler, che nel 2010 col dramedy Le nom des genes era riuscito a congiungere le trovate umoristiche agli stilemi dei film d’impegno civile, nell’ultima fatica, Una classe per i ribelli, non cerca certo l’elezione ad autore.

Ed ergo a demiurgo, agli occhi degli agnostici che alla fede in Dio antepongono quella nella cifra stilistica dei riveriti maestri. Il dono tanto dell’autoironia quanto dell’autocritica permea, invece, l’opera. Scevra dagli schematismi dell’arcinota denuncia sociale.

L’intima conoscenza della materia trattata, ovvero l’inserimento nella scuola pubblica dei bambini bianchi, ed estranei ai credi religiosi, restituisce l’opportuna sostanza della schiettezza. L’incisiva musica extradiegetica scandisce l’incipit malin-comico per ovviare all’esplicito carattere d’autenticità. Che altrimenti saprebbe troppo di documentario e quindi di programmatico. Lo scrupoloso rispetto per gli adeguati timbri antropologici ed etnologici, frammisti dapprincipio all’attendibilità delle inevitabili diatribe domestiche e alla tenerezza dei baci in famiglia, cede il passo ad alcune componenti manieristiche. Ravvisabili nei siparietti in classe dell’incerta maestra, che si sforza d’insegnare agli studenti in erba la forza significante dell’alta densità lessicale, con il rischio di cadere nel ridicolo involontario, e del preside. Incline, viceversa, ad assumere il piglio del sergente di ferro. La sceneggiatura, redatta a quattro mani con l’eclettico Baya Kasmi, che impersona il rettore avvezzo al comando ma in fondo anche alla mansueta comprensione, trascende i chiari limiti dell’intrattenimento disimpegnato cercando tuttavia di preservare lo scontato feeling delle parentesi buffonesche.

L’evidente rischio di svilire i lampi d’acume garantiti dalle doti introspettive, che centrano il bersaglio nello sfaccettato ritratto dell’avvenente ed energica Sofia, decisa a difendere lo smarrito figlioletto Corontin dal bullismo dei coetanei, incombe sull’analisi condotta sia nel rapporto di coppia sia nel contesto ambientale. Mentre le note sardoniche relative al marito batterista, Paul, votato agli slogan riformisti e alle battute di grana grossa, diluite coi semitoni, pagano lo scotto al bozzettismo faceto, a corto d’ingegno, Lecler tiene in pugno le redini della trama nello scandaglio psicologico del sobborgo di Bagnolet. Dove la celebrata multiculturalità, ghermita da Sofia contemperando l’arduo mestiere dell’avvocato in gonnella al fulgido senso d’appartenenza con la banlieue in cui ha trascorso l’infanzia, palesa molteplici incongruenze. L’erudito lavoro di sottrazione, caro a Robert Bresson, sostituisce al momento giusto l’impasse degli interludi pittoreschi e dei frizzi risaputi garantendo agli spicchi di realtà l’opportuno ausilio di una suspense fuori del comune. Non è infatti dato a sapere ai genitori, né agli spettatori, almeno per filo e per segno, cosa succeda all’interno dell’istituto educativo. La frammentarietà dei dettagli, all’inizio di scarsa rilevanza, acquista così, man mano, il dono di tenere sui carboni ardenti pure il pubblico meno propenso.

L’empatico desiderio del piccolo Corontin di stringere amicizia con gli scugnizzi di colore, ostili ai goffi problemi del benessere dei ninnoli da salotto, coglie in flagrante l’illusione dell’avventura che con l’inobliabile sortita mattutina di soppiatto nel cinema di zona richiama alla mente il cult I 400 colpi di François Truffaut. Al sentito omaggio nei riguardi del liturgico ed eterno buio in sala della settima arte, che illumina da sempre la ricerca d’autonomia nel passaggio all’età adulta, segue l’arguzia degli eloquenti silenzi. Benché la tastiera degli stati d’animo tradisca l’esile spessore del contrappunto dialogico, inadatto ad alleggerire l’ansia delle snervanti attese e a dare sostanza al gioco degli equivoci innescato dal titolo originale concernente l’ennesima lotta di classe, l’accorta scrittura per immagini, foriere d’intelligenti sfumature, aliene alle pause contemplative fini a se stesse, taglia il traguardo riservando persino parecchie sorprese. Alla collaudata intesa degli interpeti, con l’attrice d’origine algerina Leïla Bekhti sugli scudi nel ruolo della grintosa mamma che riscopre la vena romantica del redivivo coniuge, corrisponde allora il crescendo narrativo dell’epilogo. In grado di fungere da antidoto contro le scollature dovute al diverso sviluppo dei soliti battibecchi e degli intensi attimi di elegiaco confronto. Promuovendo in Una classe per i ribelli l’affetto, preferito al dunque alla cornice derisoria, a valido veicolo di conoscenza.

 

 

Massimiliano Serriello