Il biopic “black” che mette nero su bianco l’inno all’umiltà e alla caparbietà della molle acqua in grado di bucare la dura roccia, goccia dopo goccia, è Una famiglia vincente – King Richard.
L’abile regista afroamericano Reinaldo Marcus Green mette nero su bianco la storia delle sorelle Williams, cresciute dal caparbio padre Richard nell’amore per lo sport e nella passione per l’apprendimento, eletto ad antidoto contro la ressa delle strade di periferia, sulla scorta di una compiuta scrittura per immagini.
Il passaggio dal cinema underground visto da quattro gatti a quello hollywoodiano visto dagli spettatori dell’intero pianeta non gli fa certo tremare le vene e i polsi d’ascendenza dantesca. Tuttavia rispetto al cortometraggio Stop, imperniato sui posti di blocco della polizia d’oltreoceano, e soprattutto in confronto all’amaro apologo sull’università della strada statunitense Monsters and men, col quartiere di Bed-Stuy, a Brooklyn, eletto ad attante narrativo carico di significato, la geografia emozione risulta meno urgente. Ed ergo più superficiale. Evidentemente il borough di Brooklyn, le sue strade, dove gli scontri con la polizia degenerano, le pozze di sangue sull’asfalto, gli esami comportamentistici ivi connessi sono profondamente sentiti da Reinaldo Marcus Green. Al pari delle chance fornite dallo sport per uscire dalla gabbia dei condizionamenti ambientali. In tal senso Rocky di John Avildsen resta un archetipo. Per cui, quindi, è giusto spendere due parole: Rocky è quello che a Roma si definisce un “coatto”; è chiuso nella sua inibizione, nel suo ghetto a Philadelphia, nell’incapacità di scegliere tra il nobile mestiere di pugile e l’ignobile incarico di recupero crediti; quando gli capita l’occasione della vita dapprincipio si allena da solo e male; poi si fa guidare da un coach severo ma giusto; infine, applicando l’adagio Mens sana in corpore sano, percorre correndo i settantadue gradini di pietra posti prima dell’ingresso al Philadelphia Museum of Art, che rappresenta l’apprendimento al quale sembrava negato, senza avvertire più il fiatone dell’atleta avventizio; a quel punto l’atleta redento ed ex coatto, non più chiuso in se stesso, alza le braccia a “v” in segno di vittoria guardando al quartiere e alla città che sembravano averlo condannato allo status di reietto e che invece gli hanno fornito la possibilità di affrancarsi dal condizionamento ambientale inteso in maniera negativa.
La vittoria morale sta tutta lì, in quella sequenza. Ora a Reinaldo Marcus Green hanno commissionato un biopic sulle sorelle Williams, cresciute a Compton, dove le bande di strada nel passare degli anni sono diventate delle autentiche organizzazioni criminali (basta pensare ai Crips di Los Angeles). Nondimeno lo scopo di Una famiglia vincente – King Richard non consiste nel convertire i luoghi comuni sulle bande di strada in luoghi riflessivi ed evocativi. La correlazione oggettiva, ma mai evocativa, tra habitat ed esseri umani è subordinata al bisogno di approfondire l’inno all’umiltà e alla caparbietà nei consorzi domestici. In cui il padre Richard impersonato dall’istrionico Will Smith a caccia dell’Oscar, sfuggitogli con Alì di Michael Mann e La ricerca della felicità di Gabriele Muccino, impartisce le solite lezioni. In modo severo ma giusto. Il punto è capire se queste lezioni che, anziché gridare ai quattro venti, predicano in privato l’umiltà, la caparbietà, l’amore per l’apprendimento, per lavorare sul campo di tennis del ghetto tanto sui punti di forza quanto sui punti deboli, paghino dazio all’enfasi di maniera oppure siano conformi all’intensa contemplazione del reale. Il pulmino col quale il re di casa, Richard, porta le cinque figlie al campo di tennis, comprese i futuri avvocati e dottori, sotto il profilo culturale comunica poco o niente. Sul versante umanitario, col cuore in mano, piace agli spettatori dalla lacrima facile. Che apprezzeranno la visione in famiglia del film d’animazione Cenerentola targato Walt Disney. Ad alzare il tiro, lontano dagli stucchevoli segni d’ammicco alla Nuovo cinema Paradiso “vorrei ma non posso”, come si dice a Roma, provvedono alcuni intelligenti movimenti di macchina all’indietro e il confronto di ambienti agli antipodi tra loro. In tal caso pure le platee allergiche alle lagne troveranno motivi d’interesse che non durano lo spazio d’un mattino. Will Smith gigioneggia nel ruolo dell’insolito “re” Richard esibendo la stessa marcia in avanti (lo slancio sentimentale, la perseveranza, la virtù di comunicare pure con gli occhi a dispetto delle uscite logorroiche) e la medesima marcia all’indietro (l’autoreferenzialità, l’ego smisurato).
Persuadono maggiormente i carrelli all’indietro della macchina da presa, che danno il quadro completo sul piano predisposto dal padre Richard per raccogliere il frutto del sudore della fronte seminato ai fini del riscatto sociale, e la sottorecitazione della grintosa ed empatica Aunjanue Ellis. Sebbene nella parte abbastanza prevedibile della moglie devota sulle cose giuste che mette uno “stop” diverso dai posti di blocco a quelle sbagliate. Saniyya Sidney (Venus Williams) e Demi Singleton (Serena Williams) sciorinano prove azzeccate. Né professorali. Né scolastiche. Né sopra le righe. Né troppo sotto. In medio stat virtus. Virtuosismi tecnici, invece, se ne vedono pochi. Quasi nessuno. Però non se ne avverte la necessità. Le sfide di tennis, il rumore della racchetta, la verve muscolare, la direzione dei rovesci negli angoli più reconditi, i corpi giunonici, i volti a tratti allegri, a tratti concentrati, impreziosiscono il tessuto del racconto. La musica extradiegetica, le canzoni, gli ideali di giustizia appaiono scontati. Una famiglia vincente – King Richard non arriva neanche alla caviglia dei capolavori imperniati sull’università della strada (specie Clockers di Spike Lee). Non si sofferma un granché sulle bande di strada. Dapprincipio manesche. In seguito rispettose. In ogni caso questo biopic black, che non smacchia i leopardi, ovvero non mena il can per l’aia, rende bene la rabbia in corpo del padre mentore, invadente e lucido sul piano da attuare; antepone l’elementarità alla complessità degli spaccati antropologici ed etnografici tipo Gomorra di Matteo Garrone che provoca molti sbadigli; delinea negli anni Novanta una finestra del tempo incline ad accrescere gli spazi dell’immaginazione e non perde mordente nel rush finale. Ricordando che Serena, prima di diventare una vincente, ha capito che l’importante è partecipare. L’eco di About a boy – Un ragazzo, Little Miss Sunshine e Il lato positivo è evidente. Ma in fondo persino il Pierre de Coubertin, lo storico Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ne sarebbe lieto: la ragazza afroamericana divenuta campionessa uguaglia Rocky Balboa.
Massimiliano Serriello
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