L’emblematico avvicendamento dai dubbi utili, necessari a incanalare nel film di denuncia Mia i campanelli d’allarme della relazione tossica sfociata nell’atto persecutorio relativo all’atroce diffusione on line d’immagini intime ai danni dell’ingenua minorenne del titolo dagli occhi sognanti, al pluralismo dei punti di vista, alla base dell’ultima fatica diretta da Ivano De Matteo, Una figlia, trascende gli arcinoti processi conoscitivi circoscritti al connubio d’inchiesta sociologica ed esami comportamentistici.
Il regista, convincente in passato come attore ed ergo consapevole dell’importanza nell’ambito dell’indicativa problematica del reale della componente esemplificativa della recitazione per tenere desto l’interesse degli spettatori refrattari all’analisi degli stati d’animo delle pellicole d’impegno civile, è riuscito insieme all’inseparabile consorte Valentina Ferlan ad adattare l’assunto dello sconvolgente romanzo d’esordio Qualunque cosa accada di Ciro Noja alla peculiare pudicizia stilistica ed espressiva.

Regista che, dai tempi del pur toccante mélo familiare Gli equilibristi, girato tredici anni or sono, ha compiuto notevoli progressi. Riuscendo ad appaiare alla crudezza dei temi di stretta attualità, scelti d’accordo con la prodiga partner, l’asciuttezza dei franchi tiratori della Settima arte. Allergici alle modalità esplicative affidate ai vani colpi di gomito e agli enfatici segni d’ammicco della musica extradiegetica. Ed è invece proprio nella virtù di accoppiare il valore contenutistico e formale dei suoni intradiegetici, molte volte stranianti, alle accensioni figurative zeppe di echi immersivi che i maestri dell’antiretorica si differenziano sul grande schermo dai mestieranti di quello piccolo. Avvezzi ai traboccanti espedienti imposti dai diktat delle serie televisive. Che allungano spesso e volentieri il brodo fingendo di convertire lo scarso fiato narrativo attribuito al calore fugace del vero nel roboante artifizio spacciato per carattere compiuto ed esaustivo. A Ivano sta comunque a cuore l’opportuno carattere d’autenticità. A braccetto con l’egemonia del sano distacco dai giudizi perentori e manichei nonché dagli strali lanciati attraverso la demonizzazione dei presunti campioni di sadismo. L’effigie del buio enigmatico nell’incipit di Una figlia, gli incubi che attanagliano le notti della sedicenne Sofia dal giorno della morte dell’adorata mamma, i gemiti udibili dai corridoi della nuova compagna del padre, Chiara, nei congressi carnali che esacerbano l’acrimonia serpeggiante nel consorzio domestico, la correlazione tra l’habitat esterno, sulla riva est del Tevere, e i personaggi, sensibili ai legami di suolo, alla stregua dei vincoli di sangue, cementano la tensione della composizione. Stabilita step by step ex ante. In itinere, per mezzo del ritmo in filigrana affidato ai silenzi eloquenti, affiora la calma che precede la tempesta. Contraddistinta dalle partite a padel con gli amici per la pelle del babbo immobiliarista Pietro, proveniente dal Nord del Bel Paese, ciò nonostante integrato a meraviglia nel ponentino che “fa a nisconnerello” nei centri sportivi capitolini. Dalle lezioni d’ippica dell’indocile Sofia nella scuola d’equitazione all’aria aperta. Dagli sguardi complici ricambiati dal fidanzatino. Incapace però di riportarla a più miti consigli in merito all’ostilità nutrita nei confronti dell’imbelle matrigna. A dispetto dei continui tentativi di raggiungere una via d’intesa. Il delicato movimento di macchina dall’alto in basso mostra le dita della mano macchiate d’infamia. Munite un istante prima d’un coltello da cucina per prepararsi uno spuntino al riparo dalle asfissianti premure dell’incompresa Cinzia.

Nell’omicidio preterintenzionale dettato dai peggiori demoni dell’impulso emerge perciò appieno il bisogno di prendere le debite distanze da chiunque voglia congiungere l’atroce grido dell’orrore, strozzato al contrario da Ivano nel pervicace mutismo dell’imbambolata Sofia, al truce voyeurismo. L’immediato prosieguo, con l’arrivo nel focolare convertito in mattatoio, scampato alla macabra fiera di circostanza con l’erudito lavoro di sottrazione, degli agenti di polizia dai modi spicci se non bruschi, le reprimende aprioristiche ai danni dell’incredulo Pietro, in preda allo shock, l’algido protocollo delle ispezioni nel carcere femminile, le secondine franche di cerimonia dalla battuta di spirito imbottita di cinico sarcasmo, le compagne di cella dapprincipio ostili alla labilità d’approccio di Sofia, il disadattamento in prigione, dove ogni attività funge da diversivo per scongiurare lo spettro dell’alienazione, sebbene corrispondano al lodevole proposito dichiarato di preferire la scomodità della verità a qualsivoglia edulcorazione pietosa, veleggia nella superficie del compilatore occasionale delle fasi topiche dei prison movie nostrani. Tipo Fiore. Impreziosito dallo sguardo sagace di Claudio Giovannesi nell’incontro dentro l’istituto penitenziario delle recluse coi galletti detenuti pieni d’ormoni sulla scorta della tenera imbranataggine frammista alla struggente necessità di guarire con le frecce di Cupido dal fiele dell’acredine. Ad approfondire l’intrinseco mix tra assonanze e dissonanze sentimentali ed emotive Ivano provvede guidando ad hoc l’avverita psicotecnica di Stefano Accorsi nel ruolo dello sbigottito Pietro allorché dà sfogo al represso soprassalto di rabbia dinanzi alla chimera di sanare l’indicibile cicatrice dell’anima all’interno dell’abitacolo dell’automobile. Durante l’asciugatura all’autolavaggio. Il rumore disturbante provocato dai getti d’aria calda e dalle operazioni di lucidatura testimonia l’evoluzione dell’apologo sulla colpa e l’affrancamento rispetto alla tentazione dell’iperbole che aveva impedito a Ivano di mettere l’accento ne Gli equilibristi solo ed esclusivamente sull’allusivo acciottolìo delle posate in una tavola apparecchiata a festa. In cui la misofonia bastava a cogliere lo stridore dell’incomunicabilità di coppia. Risulta viceversa meno persuasiva la sequenza del telefono cellulare di Pietro in evidenza, accanto alla finestra, che squilla mentre l’immusonito genitore cammina in lontananza sulla spiaggia del litorale autoctono negandosi alla rete degli affetti. Spezzata dal raptus funesto.

Con il risultato di tralignare la recondita poesia, intenta ad afferrarne l’anima tranciata dall’irreparabilità del nefando cortocircuito, nel poeticismo conforme al mercato delle lacrime richiesto dal pubblico dai gusti semplici. Che confonde le opere d’introspezione con le soap opere. Spetta al riverbero ora del cupio dissolvi, scampato grazie alla solerzia d’una galeotta romana de Roma in apparenza scorbutica, ora dell’amor vitae per mezzo dell’innocuo specchio delle bambole appeso per ragioni di sicurezza fra le quattro mura del “gabbio” a ricondurre Una figlia nella giusta densità del tessuto umanitario. A fungere da provvido e risolutivo antidoto alla deleteria vaghezza d’un contesto sennò inadatto ad andare oltre la standardizzazione del senso d’impotenza, che inasprisce il trauma nel riconoscimento della colpevole invece di lenirlo, al posto dell’attendibilità un po’ programmatica della messa alla prova in alternativa alla pena detentiva concessa da una magistrata comprensiva, interviene la fragranza delle inedite notazioni ambientali concernenti il centro d’accoglienza fuori porta nel quale Sofia insegna a montare a cavallo ai giovani ospiti ritenuti frettolosamente duri di comprendonio. Lo spazio dell’amara vicenda diviene così ricco di significato. In linea sia col nesso oggettivo sia col controcampo soggettivo del percorso di recupero. Stigmatizzato sui social dagli abituali leoni da tastiera nelle vesti anche degli odiatori che si sfogano su Internet. Gli occhioni, inizialmente sbarrati dal ribrezzo per il delitto innescato dall’intolleranza, in seguito rinfrancati dalla notizia di essere in dolce attesa, restano il fiore all’occhiello dell’interpretazione intensa e spigliata di Ginevra Francesconi negli infausti panni dell’adolescente in odore di riscatto. Con buona pace dell’indefesso velo di mestizia che l’accompagna sino all’epilogo. Il ricorso alla calibrata correzione di fuoco da un soggetto all’altro, specialmente nel momento di massima commozione quando Sofia chiede a Pietro, che ha elaborato il lutto nel perdono per l’esistenza in procinto d’affacciarsi, di compiere una sorta di retromarcia, riesce ad amalgamare il clima di mistero alla necessità della chiarezza. Non per svelare l’arcano d’un giallo che altrimenti lascerebbe il pubblico col fiato sospeso. Bensì per comprendere da vicino le apparenti contraddizioni connesse al flusso di coscienza. Avviluppato nell’indeterminatezza dell’aura contemplativa. Promossa, in zona Cesarini, a mesta seppur degna fermezza. Con l’ausilio prezioso, apposta, del deep focus. Padroneggiato dall’ispirato Ivano. Bravo pure a inserire l’abitudine a muoversi in punta di piedi nella congerie della condanna e dell’assoluzione morale mediante lo sbocco risolutivo dei fatti all’inizio evocati, successivamente narrati, quindi contemplati. In quest’ottica la voice over conclusiva, sebbene esibita in omaggio al libro che salda il cerchio in maniera diversa, appare un surplus didascalico in rapporto all’acume di sfuggire alle insidie della scontatezza per correggere la scelleratezza dell’empietà tramite una precisa, ed epidermica addirittura, connotazione della sincera redenzione. Scandagliata palmo a palmo. La risaputa narrazione degli eventi carcerari ed extracarcerari, con l’ostilità che cede la ribalta alla complicità, è compensata dalla rinuncia alla vena provocatoria del lampo animalesco. Rimasto nell’ombra del discernimento in subbuglio. Spiccano dunque l’inopinata sicurezza di taglio delle inquadrature, garantita altresì dall’alacre montaggio dello stesso De Matteo, l’accurateza delle scene consequenziali e la personalissima castità delle trepidazioni. Mai tagliate con l’accetta. Per consentir loro di conferire ad ambedue i versanti esaminati in Una figlia, altrimenti tortuosi, la linearità dei registi meritevoli dell’elezione ad autori genuini. Costantemente sul pezzo.
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