Un’ombra sulla verità: il thriller revisionista di Le Guay

Il revisionismo storico al cinema è una faccenda da prendere con le molle. L’avveduto ed eclettico regista transalpino Philippe Le Guay, eletto ad autore tout court a pieno titolo, lo sa sin troppo bene. L’ultima fatica, Un’ombra sulla verità, ne rispecchia l’accortezza, la scaltrezza o il carattere d’ingegno creativo?

La risposta va cercata non solo nella scrittura per immagini, ed ergo nell’associazione d’idee ivi congiunta, ma pure nel pensiero dell’autore sul concetto di revisionare la Storia. Poiché sono guai quando un autore con la “a” maiuscola come il compianto regista polacco Andrzej Wajda in Katyn per mezzo degli stilemi del cinema di pensiero e di poesia snuda gli orrori perpetrati dai vincitori e addossati ai vinti.

Non è affatto il caso, cacofonia a parte, di Le Guay. La creatività fa rima con il senso di aletheia. Una parola greca che indica la verità sostanziale dei temi trattati. In antitesi dunque con le irrisolte certezze di chi secondo l’inobliabile cantante rock Jim Morrison parla tanto di libertà per poi rimanere incatenato alle esili convinzioni collettive spacciate per idee personali e confini nazionali da preservare. Le versioni della Storia a senso unico restano innegabilmente una palla al piede. Lavorando altresì per la televisione in veste d’artefice di prodotti d’intrattenimento culturale basati sull’immediatezza espressiva il dinamico Le Guay è avvezzo ad andare dritto al punto in ogni contesto in cui la comunicazione assume un ruolo prioritario. Scegliendo così la presa di posizione convenzionale il carattere d’ingegno creativo latita. Dal punto di vista stilistico, in altre parole formale, Un’ombra sulla verità ha, comunque, il suo perché. Le scenografie in particolare colgono nel segno. Sul piano dei contenuti il mistero che, se non innesca il lato irrazionale ed empatico della poesia, corrobora i tratti distintivi della suspense imperniata sulle ragioni d’incertezza, legate al proseguimento degli eventi in apparenza minimi, fornisce un supporto valido. Ma al contempo prevedibile. Il ché stona con l’intenzione di tenere sui carboni ardenti gli spettatori che la sanno lunga. La cantina al centro della trama adibita a mantenere in buone condizioni i vini rossi pregiati e non alterati è venduta dall’uomo che segue la rotta della convenzione a un uomo anticonformista.

Il tipo strambo e signorile, indecifrabile per parecchi versi, è un professore scattedrato che a scuola insegnava le verità dei vinti messe a tacere dagli immancabili vincitori maramaldi. Il conformista, una volta resosi conto che l’anticonformista è un senzatetto, chiude un occhio. Quando afferra che l’anticonformista potrebbe essere un negazionista dei campi di concentramento fa il diavolo a quattro per sbatterlo in strada. L’anticonformista invece non molla d’un passo: per lui sono i conformisti francesi a dimostrarsi indifferenti al genocidio degli indiani d’America e ad altri reati contro l’umanità che non sono sulla bocca di tutti. Il pluralismo dei punti di vista caro ad Asghar Farhadi in Una separazione è fuori dalla portata di Le Guay. Che realizza un thriller di gran classe. Ma tagliato con l’accetta del mestierante. C’è decisamente del mestiere nelle inquadrature, nei movimenti di macchina, nella pace prima della tempesta. I momenti d’impasse, che creano scompiglio nella vita di coppia del conformista spingendo la figlia adolescente e risentita ad approfondire le questioni toccate in punta di fioretto dall’anticonformista ritenuto abusivo, convincono poco. Uno sconosciuto alla porta di John Schlesinger comunica più cose avanzando meno pretese. La pretesa del revisionismo storico equivale a una patata bollente (ai gulag russi corrispondono in ogni caso i campi di concentramento nazisti e sia da una parte che dall’altra i maramaldi hanno trasformato in cenere gente innocente con le mani legate). A Le Guay riescono bene le cose semplici. Concrete.

I massimi sistemi congiunti a quelle stesse cose trattate con polso sicuro gli sfuggono invece di mano per via del carattere troppo superficiale dei ricorrenti luoghi comuni che impiega allo scopo di mandare avanti la trama. Sul più bello la forza significante degli scontri simili a quelli del simpaticissimo Carnage di Roman Polański cede il passo ad alcuni cliché senza capo né coda. Il dinamismo dell’azione procede ed elude il blocco di roccia del ridicolo involontario. L’egemonia della superficialità sull’approfondimento sancisce però quella del mestiere sugli slanci autoriali. A sopperire alla penuria d’autorialità provvede in minima parte lo spettacolo di secondo rango della recitazione. Da Oscar per quanto concerne la psicotecnica mandata ad effetto dal bravissimo François Cluzet nei panni dell’ennesimo ospite indesiderato. Il titolo originale, L’homme de la cave, faceva sperare in una cantina davvero co-protagonista. Un’esimia nomina insidiata dalle prove recitative convincenti ma non trascendentali di Jérémie Renier e Bérénice Bejo. L’attrice che impersona la figlia adolescente avrebbe meritato maggior spazio prima dell’ovvio e dibattuto trionfo del politicamente corretto. Le Guay, smarrita la verve esibita nelle colte ed espansive commedie Le donne del 6º piano e Molière in bicicletta, ha le polveri bagnate nell’affrontare l’avverso pluralismo dei punti vista in chiave revisionista; sceglie la strada assai cauta del conformismo e dell’attesa che da insperata diventa scontata. Un’ombra sulla verità resta un film minore che non andrà per la maggiore. Je suis désolé: la prochaine fois sera meilleure.

 

 

Massimiliano Serriello