La fantasia dell’appassionato regista polacco Lech Majewski, che nel visionario affresco storico I colori della passione seppe impreziosire i prevedibili stilemi dei biopic con l’assoluta necessità espressiva della cosiddetta coscienza d’immagine unita sia alla poesia sia ai fulgidi valori pittorici, sta forse cominciando a slabbrarsi?
La sua ultima a fatica, Valley of the Gods, chiamando a raccolta, insieme all’emblematica oggettività trascendente ad appannaggio del virtuosistico rapporto tra immagine e immaginazione, anche gli interpreti feticci di autori cinematografici con la “a” maiuscola, come Stanley Kubrick e Terrence Malick, fornisce al riguardo risposte discordanti.
Senz’alcun dubbio all’attivo vanno rimarcati i punti nevralgici raggiunti dalla complessa narrazione, dall’ossatura ritmica frammista all’ampio risvolto simbolico, dal fermo desiderio di realizzare una sorta di documentario dell’anima. Imperniato sullo stream of consciousness tanto dell’immusonito scrittore John Ecas, costretto a compilare da bravo ghost writer la biografia del potentissimo finanziere Wes Tauros, quanto dei Navayos. Gelosi delle loro riserve. Ghermite dalla tentacolare società dell’influente magnate. L’egemonia dello spirito, con l’inchino ai luoghi di culto, sulla materia, rinvenibile nell’estrazione dell’uranio da anteporre alle fonti non rinnovabili del petrolio per il redditizio sfruttamento energetico, innesca sulla carta l’apporto del rimando all’occulto, di diversi livelli di significato, dello stile ieratico ed erudito necessario ad amalgamare al sempiterno fascino dell’avventura quello dell’aura ascetica, sancita dagli ipnotici carrelli meditativi, e dei consueti tableau vivant. Considerati autentici cavalli di battaglia dal poliedrico Majewski. Che inculca l’entusiasta carattere d’ingegno creativo nella peculiare cura dei raccordi di montaggio e dell’alacre fotografia. All’atto pratico, però, la compiaciuta ed elaborata tecnica di ripresa, predisposta per permettere alle dinamiche cromatiche e alla forza significante del racconto di radunare step by step i tasselli del film-mosaico, risente di alcune direzioni incompatibili. Da una parte emerge l’intento di trasmettere i rovelli nascosti di Taurus, che elabora il lutto per le dipartite della moglie e della figlia agli angoli oscuri di sordide strade periferiche, in antitesi con la reggia dove i luminosi simboli dell’inarrivabile ricchezza non riescono neppure per un momento a sopperire alla miseria interiore, dall’altra affiora una deleteria diminuzione d’intensità nell’inno liturgico congiunto alla scoperta dell’alterità.
La contesa area mineraria, le cui vere risorse risiedono nella potenza dell’invisibile e nel culto dei defunti, per divenire sul serio l’aura contemplativa capace d’ispirare nuovamente il malconcio uomo di lettere a corto d’orgoglio ed estro, snervato oltretutto dal benservito impostogli dalla delusa consorte, avrebbe dovuto infondere alla dimensione ontologica del territorio eletto a teatro a cielo aperto dell’intricata vicenda l’opportuno processo d’empatia della tipica compagna di strada. Invece la vanagloria di esibire una polivalenza estetica ed evocativa di rango decisamente superiore rispetto all’ordinaria identificazione nei road movie canonici, tipo Central do Brasil di Walter Salles, con le zone più neglette e desertiche promosse ad attanti diegetici che racchiudono nella sana fuga dall’algida metropoli di Rio de Janeiro il calore umano del viaggio occasionale, traligna l’apologo sull’influenza corruttrice del denaro in aria fritta. La giustezza della natura, scandita dai suoni intradiegetici, l’abbaglio architettonico del castello di Taurus cadenzato al contrario dall’esasperante musica extradiegetica, l’infeconda rabbia dell’indiano smanioso di un erede, per condurre in porto la pratica devozionale della tradizione, gli spazi scenici, la profondità di campo, il contrappunto dei primi piani tradiscono l’impasse del viaggio nell’irrealtà. Scambiato per un provvido veicolo di orrore, meraviglia e catartica rinascita.
Lo zelo autoironico del fedele servitore di Taurus, Ulim, che richiama alla mente i colpi di gomito dell’universo mainstream, anziché fornire debite gag di alleggerimento all’indigesta parabola d’imitazione, con l’affetto liturgico di Pier Paolo Pasolini ed Ermanno Olmi appaiato alla bell’e meglio all’intelligenza formale di Kubrick e alle ridondanze riflessive di Malick, abbassa l’asticella dell’altezzoso omaggio all’universo mitico delle culture arcaiche. Il procedere dell’inconscio, l’inafferrabilità dei sogni, l’equa inversione di tendenza stentano ad assumere un ruolo di rilievo. Vampirizzato viceversa dai segni di ammicco del cast: dal mostro sacro John Malkovich (Taurus), schiavo dei vezzi istrionici, al redivivo Keir Dullea (Ulim), indimenticato astronauta di 2001: Odissea nello spazio; da Josh Hartnett (John) a Bérénice Marlohe, Jaime Ray Newman e Charlotte Rampling nelle carnali ed estatiche vesti dei profili di Venere. È dunque necessaria la geografia emozionale che in Valley of the Gods paga dazio alla mera suddivisione in capitoli nella speranza di accrescerne l’esile pathos? Evidentemente no. Lo certificano il regresso dell’ambìto picco poetico in stucchevole poeticismo e l’inane predominio dei soliti ed effimeri numeri d’illusionismo sull’intrigante clima di mistero dell’incipit. Questa volta, col passaggio dal Vecchio Continente al Nuovo Mondo, pieno zeppo lo stesso d’istanze simulacrali, la sensibilità artistica, a dispetto delle aspettative ingenerate dai vari décor carichi di senso, resta ferma ai box di partenza.
Massimiliano Serriello
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