Verso la notte: interni ed esterni romani e crucci iraniani

Tra i fan del cinema d’autore, che preferiscono la ricercatezza delle peculiari tecniche di ripresa, la suspense meditabonda, la volontà persino di strafare sul versante dell’aura contemplativa rispetto all’immediatezza espressiva di opere destinate al pubblico dai gusti semplici, allergico ai dispendi di fosforo, i registi iraniani rappresentano il top. Specie Asghar Farhadi. Vincitore di due Oscar come Miglior Film Internazionale. Con Una separazione e Il cliente. In lizza per vincerne un terzo con A hero.

Anche se il passaggio da Teheran, la capitale dell’Iran che conosce bene e stima poco per quanto concerne la penuria di empatia di chi vi abita, a Shiraz, la città situata nell’Iran sud centrale ritenuta l’orgoglio nazionale pure in virtù del rimpianto dei valori ereditati dalla tradizione, con la Tomba di Hafez di marmo sugli scudi, che conosce meno rispetto al luogo natìo ed ergo idealizza di più, palesa un calo del carattere d’ingegno creativo confronto ad About Elly. Il suo autentico capolavoro. Senz’alcun dubbio.

Nel raccontare la vicenda d’una coppia di ragazzi iraniani a Roma in Verso la notte, il regista nostrano Vincenzo Lauria, all’esordio sul grande schermo, cosa idealizza: l’Iran, come patria per eccellenza del cinema d’autore affiliato con l’Italia? O solo ed esclusivamente con gli autori dello Stivale che diffidano dei coefficienti spettacolari delle opere scacciapensieri che mostrano molto e comunicano poco? La strada di Roma per Vincenzo Lauria è l’imprescindibile punto di partenza per il carattere morale del racconto filmato. Connesso a doppio filo con la geografia emozionale. Il meta cinema, caro alla Nouvelle Vague e in particolare a François Truffaut nell’inobliabile Effetto notte, costituisce da una parte un ulteriore modello assai stimolante da cui trarre partito. Dall’altra fa la spia alla smania di scrivere con la luce per acquisire le patenti di nobiltà necessarie ad andare oltre la pigrizia delle idee prese in prestito. Prive quindi d’una conoscenza intima della materia trattata. Quale materia tratta Lauria? Fondamentalmente mette a confronto due modi agli antipodi di vivere la città Eterna – in sintonia con l’habitat, Maryam; in disaccordo, Hesam – e porsi dinanzi al documentario che stanno girando. Incentrato su una quarantenne senzatetto, Anna, intenta ad accoppiare le perle di saggezza ad attimi d’afflizione profonda. Ghermita da Hesam con la cinepresa. E da Maryam sedendole a fianco. Lungo i luoghi dell’anima che disseminano Roma. La materia è, oltre all’ovvia correlazione tra habitat ed esseri umani, dagli autoctoni agli stranieri giunti nell’Urbe in quanto cittadini del mondo o esuli attanagliati dalla logorante morsa del rimpianto per il luogo identitario lasciatosi alle spalle, la cosiddetta scoperta dell’alterità. Divenuta qualcosa di familiare per Maryama. Rimasta qualcosa di respingente ed estraneo per Hesam.

Ora la prima caratteristica del cinema d’autore consiste nel riuscire ad anteporre all’impasse delle opere a tesi, che in pratica dicono agli spettatori, attraverso il linguaggio della scrittura per immagini, come la devono pensare, come devono sentire le cose, dall’arte della modernità, condotta in auge dalla fabbrica dei sogni, l’alone luminoso ed eterno dell’irripetibile. Ossia l’attimo fuggente. Che riguarda altresì l’asprezza oggettiva, l’alternazione d’informazione culturale ed elaborazione antropica e collettiva delle opere documentaristiche. Imperniate sulla verità sostanziale dei fatti. Dipinta sui volti delle persone, nei marciapiedi, negli oggetti, nel rapporto tra interni intimisti ed esterni rivelatori, nelle cerchie incantate, nei corridoi, nei semitoni delicati, nei controcampi indelicati, negli anfratti nascosti, nella valenza delle scenografie, dei fattori visivi, delle pieghe visionarie, del sottosuolo dei gesti. Senza bisogno di ricorrere al lavoro degli attori su se stessi e sui personaggi. L’emozione suscitata dal documentario sulla romana filosofa ed errabonda, sarcastica e triste, allusiva e instabile, che contempla il sottotesto connesso all’ordine delle cose, spingendo chi l’ascolta a capire tra le righe l’arcano che molti vorrebbero scoperchiare di netto, risulta degna di nota. Anche se il trattamento riservatogli risulta al servizio di una tesi che c’entra poco o niente con la virtù di convertire gli elementi figurativi in ragguagli introspettivi. Il tentativo piuttosto scoperto di congiungere i momenti epifanici, il bisogno di viaggiare con lo sguardo, di evadere dall’impiego del volantinaggio, la metonimia dei cinquanta euro dati come anticipo dal principale profittatore, che pagherebbe cento cene ai profili di Venere che gli svolazzano attorno al telefono cellulare, le scelte luministiche della fotografia, la perizia dei costumi, ai cosmetici, le linee e le ombre garantite dai truccatori palesa le velleità dell’esercizio stilistico.  Desideroso di esercitare un forte ascendente sulle platee avvertite. Che preferiscono Interiors di Woody Allen ad altri film del brillante attore-regista ebreo-statunitense avvezzo pure alla sagacia parodistica, al valore terapeutico dell’umorismo, alla brillantezza delle battute sempre in canna.

Di battute in Verso la notte ce ne sono ben poche. La Roma che il lucano Lauria conosce è quella della movida, dei locali alla moda, dei pub, coi camerieri gentili che vorrebbero spingere i clienti a spendere un bel po’ di soldi, dei piccoli alberghi, dove l’impiego nelle vesti di portiera, anziché fornire una valida alternativa alle umili incombenze della cameriera, innesca la gelosia dell’uomo. Di Hesam. Snudandone il maschilismo malcelato. Alireza Garshabi aderisce ai silenzi, alla permalosità, alla lucidità del personaggio, che capisce di essere lui il problema e guarda al mulinello d’acqua del fiume Tevere come a un fugace punto di connessione con la terra lontana, sulla scorta di una recitazione scolastica. Sprovvista dei guizzi necessari a trasformare l’azione in pensieri compenetranti. Duné Medros (Maryama) e Paola Toscana (Anna) raggiungono invece dei punti d’intersezione molto più compiuti ed empatici coi loro personaggi. Lauria sciupa tuttavia la loro psicotecnica. Ricalcando dalla serie Roma e da Suburra televisiva l’effigie sghemba dei sampietrini. Che a parer suo dovrebbero aggiungere un importante tassello alla scoperta dell’alterità dell’Urbe attraverso l’ottica di una donna libera dei pregiudizi e di un uomo schiavo dei fantasmi privati. I contrasti chiaroscurali, lo sdoppiamento tra l’amarezza della realtà e il desiderio di ricrearla partendo dal documentario, e non dai sogni campati in aria, il presunto coinvolgimento estetico che Lauria prova a connettere allo scandaglio ambientale, all’analisi in teoria sensibile dell’ennesima alienazione d’antoniana memoria fa un buco nell’acqua. Sulla falsariga del mulinello evocato nella canzone sul barcarolo. Verso la notte batte così in ritirata. Cercando gli applausi a scena aperta del pubblico ansioso di sembrare intelligente. Ma la sensibilità con cui Antonioni e Farhadi connettono gli sguardi al passato, al presente e al futuro, in rapporto all’apparecchio surrogatorio ed emblematico dell’habitat, è davvero un’altra camminata. Neanche a parlarne.

 

 

Massimiliano Serriello