Vivarium: il labirintico allevamento umano di Lorcan Finnegan

Il termine Vivarium indica un allevamento di vario tipo per bestie di ogni specie, che era in uso ai tempi degli antichi Romani. Questi spazi erano alquanto estesi, dieci o più ettari, ed erano progettati per far sentire la selvaggina all’interno del proprio habitat.  Il vivario era mantenuto da persone facoltose, che lo affidavano ad un custode, il quale provvedeva a nutrire la bestie. Sono partita dalla definizione di tale termine per introdurvi il film di cui vi parlerò oggi, il cui titolo è proprio Vivarium, e che è perfettamente attinente alle poche parole di cui sopra.

Solo che qui non ci sono animali, ma esseri umani, e ad allevarli c’è qualcuno che non ci si aspetterebbe mai. Collaborazione irlandese/danese/belga, classe 2019, il film può contare sulla regia pulita ma priva di virtuosismi del dublinese Lorcan Finnegan, sulla glaciale ed evocativa fotografia di MacGregor, e sull’ottima interpretazione della brava attrice protagonista Imogen Poots, che si era già fatta notare in opere del calibro di V per Vendetta di James McTeigue, 28 settimane dopo di Juan Carlos Fresnadillo, Jane Eyre di Cary Fukunaga e Fright Night di Craig Gillespie. Vivarium è un film straniante, destabilizzante, cinico, che sta sempre sul limite tra l’horror, il drama e la fantascienza, per poi prendere una posizione sicuramente più definita da metà in avanti.

Ho sentito dire che la sceneggiatura, scritta da Garrett Shanley su un soggetto realizzato a quattro mani con lo stesso regista, avrebbe potuto dare più risposte, spiegare di più, ma in fondo io credo che vada benissimo così, e che non ci sia bisogno di grandi spiegazioni per capire cosa stia avvenendo in questo grande vivario che porta il nome di Yonder. Gemma e Tom, due giovani innamorati, stanno cercando la loro prima casa dove andare a coronare il loro sogno d’amore. Girovagando per le strade della loro città si imbattono in una strana agenzia immobiliare dove vengono vendute delle villette a schiera tutte uguali all’interno di un nuovissimo complesso residenziale nella vicina periferia, chiamato Yonder. Tom non pare particolarmente interessato alla tipologia di abitazione, colpito anche negativamente dagli strani ed ambigui modi di fare dell’agente immobiliare, Martin, il quale però alla fine ha la meglio, e riesce a convincere la coppia a dare un’occhiata ad una delle casette del complesso. Dal momento in cui varcano l’ingresso di Yonder ai i due giovani cambierà completamente l’esistenza: dopo una visita sommaria dell’unità abitativa numero nove, si accorgeranno che Martin è sparito e li ha lasciati completamente soli nell’enorme complesso residenziale composto da un numero incredibile di casette verdoline tutte uguali, che si estendono a perdita d’occhio. Inizialmente sollevati dalla scomparsa dell’uomo; Gemma e Tom decidono di lasciare Yonder per non farci mai più ritorno, ma la cosa non si rivelerà affatto semplice come credono: ogni strada che percorrono li riporterà sempre all’abitazione numero nove, dove alla fine saranno costretti a trascorrere la notte. Stanchi ed affamati trovano davanti alla porta di casa una strana scatola con del cibo, e la mattina dopo una nuova scatola li attende, ma con un contenuto decisamente diverso da quello della sera precedente…

La prima domanda che ci si pone è: riusciranno i due giovani a uscire dal dedalo di stredette di Yonder? Da qualche parte sono entrati, da qualche parte l’agente immobiliare è uscito, e quindi per forza di cose da qualche parte dovranno uscire anche loro…ma come fare, se ogni strada, in auto o a piedi, li riporta sempre all’abitazione numero nove, e se da nessuna parte i cellulari hanno segnale per permettere loro di chiamare aiuto? Provano coi segnali di fumo, con le enormi scritte segnaletiche sul tetto, ma ben presto si accorgono che a Yonder regna un silenzio irreale, che non viene mai rotto da altre voci umane, né da rumori di auto o di aerei. Sembrano essersi persi nel nulla, in un non luogo, e la casa numero nove diverrà, loro malgrado, l’unico loro nido e punto di riferimento, con qualcuno che li nutre ogni giorno attraverso gli scatoloni colmi di cibo lasciati davanti alla porta, di cui però non si riesce mai a svelare l’identità. Cos’è Yonder, e cosa vi si cela dietro? Vivarium ci cala in un immaginario distopico che ci spaventa senza bisogno di mostrare, ma anzi, nascondendoci ogni sorta di certezza, sottraendoci ad ogni sorta di rivelazione, facendoci solo intuire ed immaginare ciò che si cela, mastodontico ed implacabile, dietro a quelle villette a schiera che inizialmente sembrano quelle di un videogioco, per poi somigliare sempre di più ad un quadro di Magritte, fino ad arrivare alla visione dall’alto che le porta a ricordare, con un presagio suggerito ma estremamente chiaro, le tombe di un enorme cimitero, quasi un cimitero militare, di coloro che sono caduti in servizio, ed ai quali vengono infatti tributate delle tombe tutte uguali, senza differenza alcuna, perché una volta svolto il loro dovere ogni soldato perde la sua identità ed il suo scopo, per diventare solo uno tra i tanti che sono serviti alla causa. Un’altra similitudine che si potrebbe pensare è quella con un alveare, fatto di tante celle vicine ma non comunicanti, così che gli abitanti risultino delle api operaie al servizio di un regista invisibile che le sfrutta per i suoi piani, che però per loro restano incomprensibili. Le idee di prigionia, di alienazione, di spersonalizzazione, rimangono alla base della metafora sociale che si nasconde dietro questo film, che ha il merito di provare a fare Cinema con la C maiuscola, cosa non da poco al giorno d’oggi. Le suggestioni pittoriche virano, verso il finale, da Magritte a Escher, nell’idea di un mondo sotto il mondo, di una casa sotto la casa, completamente identica, in un groviglio da incubo nel quale si ritroverà, suo malgrado, la povera Gemma, giungendo così ad una consapevolezza che le toglierà ogni più piccola speranza, ogni illusione di una ritrovata libertà, e con esse ogni voglia di continuare a lottare, e persino di vivere.

Film che io ho trovato, per certi versi, estremamente lovecraftiano, data la presenza di entità “altre” senza volto e senza nome, con un proprio linguaggio e una propria scrittura, con propri testi sacri, ostili all’uomo, parassiti del mondo. Sarà solo una mia suggestione, ma non ho ritenuto casuale il fatto che uno dei personaggi più inquietanti del film, il cosiddetto ragazzo, sia impersonato dall’attore irlandese Eanna Hardwicke, che viene truccato ed agghindato in modo tale da assomigliare in maniera impressionante al Solitario di Providence, Howard Phillip Lovecraft. Omaggio? Chissà, io l’ho interpretato così. Accanto a Hardwicke ed alla brava e bella Imogen Poots ricordiamo, nel ruolo dell’agente immobiliare Martin, l’attore inglese Jonathan Aris, già volto noto della fantascienza per aver preso parte a film quali The Martian di Ridley Scott, Morgan di Luke Scott (figlio di Ridley) e Rogue One: A Star Wars Story di Gareth Edwards; ad interpretare il compagno di Gemma, Tom, troviamo l’americano Jesse Eisenberg, il Mark Zuckerberg di The Social Network di David Fincher, ed a chiudere il cerchio di questo modesto ma estremamente efficace cast troviamo il piccolo Senan Jennings, che interpreta uno dei bimbi più insopportabili e stranianti della storia del cinema, con le sue urla allucinanti che spezzano il silenzio irreale di Yonder. Vivarium, quindi, dietro al suo volto distopico, nasconde una ben precisa critica sociale ad un modello di vita preconfezionato che la società borghese (piccola piccola) ci impone, quello del benessere dato non dalla propria libertà individuale ma da obiettivi standard da raggiungere, come trovare una persona con cui condividere la vita, trovare un lavoro che permetta di comprarsi una propria casa, e coronare il tutto con la nascita di uno o più figli.

La mancanza di uno di questi elementi sembra rendere la persona meno perfetta, meno soddisfatta, limitandole così la propria affermazione, la realizzazione dei desideri, qualora vadano in contrasto con questo modello che ci viene imposto. Siamo tutte cavie da laboratorio, nella società dei benpensanti, e ciò che ci renderà alla fine di nuovo liberi sarà, a quanto pare, solo la morte, perché in vita non ci resta che piegare la testa ed accettare passivamente il nostro destino. Le uniche divergenze concesse spesso non servono a nulla e diventano delle ossessioni, come quella di Tom che inizia a scavare una buca eterna che non porta da nessuna parte ma gli impegna intere giornate e gli mina man mano la salute, sia fisica che mentale, o quella di Gemma, che si ritrova a crescere un figlio di cui non è madre, ed a cui non riuscirà mai a voler bene, ma di cui è, suo malgrado, totalmente succube. Perdere noi stessi, la nostra identità, diventare tante silhouette tutte uguali come quelle di Golconda, sotto un cielo dove persino le nuvole perdono la loro libertà di sembrare qualcos’altro, di prendere forme più svariate, ma sembrano solo e semplicemente nuvole, tutte uguali, vuote, aride. E’ così che ci riduce la nostra società, è così che il Vivarium riduce i malcapitati che vi vengono trascinati all’interno. Senza alcuna possibilità di rivalsa, in un finale che più disilluso non si può.

“Quality family home. Forever” (Qualità, Famiglia, Casa. Per Sempre) così recita il grande cartello pubblicitario che fa bella mostra di sé all’ingresso di Yonder: e mai quel “Per Sempre” fu così emblematico e pregno di nefasti significati. Nascere, crescere, vivere, procreare, lavorare, e ovviamente morire, prima del tempo se possibile, onde evitare di gravare sulle sempre più private finanze pubbliche. Questo è il senso della vita delineato da Vivarium, che non offre un varco nella maglia. Non esiste scampo, nessuna via di fuga dall’ineluttabile. L’ottimo lavoro di Finnegan, è quindi, in fondo, “un esperimento sociale che ci mostra cosa resta della vita umana senza l’umanesimo: la pura, monocroma, violenta sussistenza biologica”, per citare le parole del critico Lorenzo Maselli, “un film su tutto quello che di più osceno si cela nel sogno borghese, e non lascia alcuna speranza”.

 

 

Ilaria Monfardini