Vulnerabili: coralità e assoli recitativi per Gilles Bourdos

Il mélo Vulnerabili è diretto dall’involuto regista francese Gilles Bourdos, lontano anni luce dall’arguta interazione tra interni ed esterni palesata nell’appassionante ed erudito biopic Renoir, con un rapporto padre-figlio impreziosito dall’accordo del carattere d’ingegno creativo.

Mentre l’incipit, contraddistinto dall’ingannevole euforia di una giovane e incosciente coppia destinata a scoppiare, sembra trarre partito dalle tecniche di straniamento care al provocatorio ed estroso Lars von Trier, ponendo l’accento sull’amara inversione di tendenza a discapito della fuggevole allegria, l’immediato prosieguo concede parecchie banalità.

L’opera di Bourdos stenta ad afferrare la forza significante dello scandaglio ambientale al di là delle grida liberatorie dell’inizio. Che, col senno di poi, regrediscono nell’ormai tedioso addio all’età verde contemplato da venti primavere dal nostro Gabriele Muccino.

I confronti a distanza nei salotti pieni di libri, ma privi di assennatezza per via delle reiterate schermaglie dialettiche, con qualche concessione di troppo ai colpi di gomito delle componenti manieristiche, prendono il sopravvento.

Il corollario di situazioni previste dal copione sull’esempio degli impianti corali, contemplati ai bei tempi da Robert Altman, passa attraverso lo spettacolo di secondo rango della pur efficace recitazione. Che divenendo il centro vitale del quadro d’insieme oscura il dinamismo dell’azione originata dall’eterno tema dell’incomunicabilità.

Il faccia a faccia del corpulento Joseph con l’instabile genero Tomas, reo di picchiare selvaggiamente l’avvenente ed esausta consorte, coglie nel segno. A differenza del livore esibito dal velleitario Vincent contro l’affabile professore danese Yanne Petersen. Felice delle promesse d’amore fatte con la giovane Mélania. In dolce attesa. A dispetto dell’aperto disappunto paterno.

I parcheggi, i garage, il centro antiviolenza, dove nel finale la moglie picchiata ritrova il sorriso, perché alla dipartita del principe azzurro divenuto orco corrisponde la vita in procinto ad affacciarsi sopperendo al grigiore dell’indefessa mestizia, non sono esenti dall’inerzia dei ricalchi. La messa in scena di tipo teatrale ha il fiato corto.

Il lavoro di sottrazione, rinvenibile nei suoni diegetici che riflettono la mutevolezza delle precarie note intimiste lacerate dalle improvvise sprezzature degli emblematici frastuoni, cede presto spazio ad ampollose repliche. Ripetita iuvant?

In questo caso decisamente no. L’accuratezza traligna in pedanteria inutile. Lo sforzo di raggiungere, invece, il diapason in alcune soluzioni espressive, aliene ai limiti onesti degli apologhi d’impegno civile sulle violenze domestiche, provoca la partecipazione emotiva del pubblico mischiando il sacro con il profano. Le inquadrature di quinta e i piani-sequenza che richiamano alla mente il momento in cui Butch Coolidge, il pugile balordo di Pulp fiction, torna a casa, sia pure rischiando di rimetterci la pelle, faranno sbadigliare al momento giusto gli spettatori meno avvertiti al riguardo.  La resa dei conti soffre anch’essa di palesi incongruenze. Esacerbate da una noia di piombo impensabile dapprincipio.

I motivi d’inquietudine trasformati in sbadigli mandano perciò a carte quarantotto la speranza d’indurre il pubblico ad interrogativi cruciali e di evidenziare l’aura contemplativa nei campi lunghi del luogo del delitto a seguito dell’agonia dell’oppressore nelle vesti della vittima di turno

La prova recitativa dell’intero cast sembra allora un aglietto col quale consolarsi. A spiccare sono soprattutto la mole massiccia e gli sguardi cerbiatteschi ed eloquenti del bravissimo Grégory Gadebois, che nel ruolo di Joseph ricorda molto il nostro Federico Tocci, indimenticabile coi suoi silenzi profondi in A Tor Bella Monaca non piove mai come braccio della legge poco violento ed estremamente comprensivo.

Non si può dire altrettanto delle location di Vulnerabili. Dove piove piuttosto spesso, senza per questo mai creare sapidi effetti noir né riuscire ad anteporre gli stilemi della geografia emozionale ai timbri figurativi fini a se stessi. Al chiuso l’agognata egemonia del calore umano sulle zone di freddezza arriva troppo tardi. Ovvero quando l’efficacia mimica viene a cadere dinanzi ad affondi amari tradotti in sorrisi smielati.

 

 

Massimiliano Serriello