West Side Story: la strada in chiave musical secondo Spielberg

“Come andare duri e pronti nella ressa delle strade”. Così Pier Paolo Pasolini snudava lo spirito dei ragazzi di vita romani bisognosi di “guardare un uomo negli occhi senza tremare” ostentando un cinismo e un disincanto solo ed esclusivamente di facciata. Dietro cui si annidavano l’ipersensibilità e l’incanto della speranza per una vita migliore.

La classica tomba delle illusioni. All’origine negli anni Sessanta del canto, anzi, delle canzoni del musical West Side Story, passato dalle tavole del palcoscenico al grande schermo per cogliere l’opportunità di esibire la cosiddetta università della strada con le risorse offerte da una produzione che non badava a spese, sulla scorta di un’arguta rilettura dell’inobliabile Romeo e Giulietta di William Shakespeare.

Adesso è il turno di Steven Spielberg con West Side Story. I fan contano i minuti prima dell’approdo nel mercato di sbocco della fabbrica dei sogni del remake filmato dal Re Mida di Hollywood. E, ora che siamo agli sgoccioli, sanno già cosa aspettarsi. Perché hanno ancora nella mente e soprattutto nel cuore il coro gospel mandato a effetto nel toccante Il colore viola insieme alle parole “Speak Me” e “Speak Love” intonate a squarciagola dalla cantante afroamericana Shug Avery sulla via di Damasco. Altri cinefili sono tuttavia meno attratti dallo stile di favolista del grande schermo che Spielberg ha ereditato con la scrittura per immagini il lascito letterario di Jules Verne ed Emilio Salgari e più coinvolti dall’aura contemplativa connessa ai timbri antropologici ed etnografici alla base dell’università della strada. Sia essa ravvisabile nei deserti d’asfalto della Città Eterna. Nei prati incolti cari a Pasolini. Nei sentieri vicino ai marciapiedi. O nel colore viola di un campo di fiori per cui Dio vuole che l’incanto non ceda il passo al disincanto. Oppure nei tombini, nei vicoli, nei palazzi e nelle scale antincendio della Grande Mela. Nel West Side Story diretto in tandem da Robert Wise, autore anche dell’apologo sul mondo del pugilato Lassù qualcuno mi ama, e Jerome Robbins la scala antincendio permetteva al novello Romeo, l’ex capociurma del gruppo dei Jets, Tony, di raggiungere in un battibaleno la finestra adibita a terrazza dove era affacciata in veste di Giulietta portoricana Maria. Sorella del leader del gruppo degli Sharks. Gli squali. Il punto, al di là delle ostentazioni di stima degli ammiratori alieni al pensiero critico nei riguardi dei lori numi tutelari e delle riserve mosse dalle platee con la puzza sotto il naso nella pretesa di apparire estranee al richiamo dei buoni sentimenti in grande stile, è capire se le interpolazioni apportate da Spielberg costituiscano un valore aggiunto, degno davvero di nota ed encomio. Spielberg, nato come regista underground con pochi mezzi, ma molte idee in testa, scevre dall’accidia dei nani sulle spalle dei giganti, non ha certo disperso il carattere d’ingegno creativo nei coefficienti spettacolari garantiti dalle produzioni ad alto budget. Anzi è riuscito ad appaiare gli stilemi del cinema commerciale con l’originalità di quello autoriale.

In questo caso la sfida dell’originalità sembra però proibitiva: ai tempi Wise e Robbins la vinsero grazie alla precisione geometrica ed evocativa sostenuta dall’alacre illustratore Saul Bass e alle scansioni ritmiche della musica ora dolce ora tambureggiante. Che ispirò, in seguito, per l’intelaiatura tanto umana quanto formale, La febbre del sabato sera di John Badham e I guerrieri della notte di Walter Hill. D’altronde Wise in Lassù qualcuno mi ama aveva già dimostrato di saper cogliere la correlazione oggettiva tra habitat ed esseri umani, spesso condizionati negativamente dal territorio eletto a location, permettendo ai cinenauti lontani di scoprire il Lower East Side. Negli edifici popolari posti a un tiro di schioppo dai palazzi di lusso. Con la povertà e la ricchezza a due passi l’una dall’altra. Mentre il futuro pugile Rocky Marciano era alle prese con la perdizione del contraltare della strada. In attesa di redimersi sul ring. Capire gli insegnamenti di un’università aliena ai libri. Ma non alla saggezza. Cosa mette di suo Spielberg a parte le ingenti somme della faraonica produzione? Innanzitutto, consapevole dell’ascendente esercitato dal richiamo citazionistico sulla scorta della cultura postmoderna, che pone Jean-Luc Godard ed Enzo Girolami Castellari sul medesimo piano, al posto de La febbre del sabato sera, con John Travolta nei panni del re delle piste da ballo capace di misurare la superiorità in gara della coppia portoricana, opta per Grease – Brillantina. In cui lo stesso Travolta indossa il giubbotto di pelle del capobranco d’una banda di studenti della Rydell High School negli anni Cinquanta denominati Thunderbirds e detti T-Birds per tagliare corto. Il ballo inteso come atto di sfida trasforma la palestra della scuola limitrofa in teatro d’incontro dell’amore di shakespeariana memoria e di scontro dei ragazzi di vita che si contendono l’humus avvertito alla stregua dello spazio vitale. Spielberg conferisce notevole forza significante al ritratto del fratello di Maria, Bernardo, incarnato con trascinante aderenza al personaggio, tutt’altro che tagliato con l’accetta, dall’attore canadese David Alvarez. Che si cala alla perfezione nei panni del pugile portoricano incline all’iperbole della violenza, avvezzo alla dolcezza domestica, deciso a preservare gli amici che hanno studiato dalla ressa delle strade traendo partito dal volto cerbiattesco di Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan in netto contrasto con la prestanza dei muscoli e i modi da troglodita.

In tal senso David Alvarez, per merito di Spielberg che rifuggendo dalle inquadrature lusinghiere ne cattura l’anima nascosta dalla corazza dei bicipiti, supera in bravura Richard Beymer nel medesimo ruolo in West Side Story di Wise e Robbins. La Maria della giovane cantante Rachel Zegler, benché all’esordio, risulta anche lei più convincente di quella dell’avvenente Natalie Wood. Significa, per farla breve, che lo spettacolo di secondo piano della recitazione, una volta promosso a spettacolo di prim’ordine, costituisce la carta vincente di Spielberg? Se così fosse ciò equivarrebbe a una sconfitta nell’ambito dell’autorialità. In realtà Spielberg approfondisce i personaggi prendendo distanze siderali dal divismo. I volti neolitici dei contendenti incidono giacché ricordano, in un contesto chiaramente diverso, i ragazzi di strada di Pasolini. Spielberg poi rilegge motu proprio Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola. I tagli di luce dell’espressionismo tedesco, alcune finezze del simbolismo scenografico, certi cortocircuiti visionari non lo sfiorano affatto: va al sodo. Gli interessano l’atmosfera, le ombre. Nel momento in cui l’arma bianca, spuntata con buona pace dei patti d’onore sanciti per rendere la zuffa leale, brilla nel buio ed emana concetti lapalissiani. Di presa immediata. Ad andare oltre la pietra di paragone col passato (basti pensare alle questioni di lana caprina su chi meriti la lode tra Fredrich March in Morte di un commesso viaggiatore di László Benedek e Dustin Hoffman nel rifacimento per la televisione di Volker Schlöndorff) provvede Rita Moreno. Che nel vecchio West Side Story, tratto dal celebre musical di Arthur Laurents, era Anita e adesso incarna Valentina. La proprietaria del bar dei Jets che nel difendere l’Anita impersonata con empatico ed epidermico slancio sudamericano dalla ballerina Ariana DeBose richiama alla mente la maestra Cristina di Don Camillo. Pronta a tirare le orecchie agli ex studenti divenuti facinorosi militanti del partito comunista. Spielberg, che con la saga di Indiana Jones ha sempre riservato a comunisti e nazisti una buona dose di punture di spillo, con la musica se la cava, delegandola agli esperti, senza apporre modifiche rimarchevoli rispetto al format; coi movimenti di macchina va in profondità e nel finale, con la tragedia giunta al diapason, tocca la vetta della sensibilità e dell’estro. Clint Eastwood in Cry Macho lo fa con un budget ridotto e un gran cuore; Spielberg con un budget da nababbo e un gran cuore pure lui. Sono, oltre che amici, i migliori registi viventi. Giacché snudano l’ingegno e l’università della strada. West Side Story può divenirne il simbolo sbancando agli Oscar. Anche se il cartoon Encanto non smacchia i leopardi. Staremo a vedere. E altresì a sentire.

 

 

Massimiliano Serriello