Whitney – Una voce diventata leggenda: voglio una biografia spericolata

A dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta l’11 Febbraio 2012, la cantante Whitney Houston ancora oggi vive nel pieno della sua leggenda, essendo stata l’artista musicale più premiata della storia e al centro di diversi record, dimostrando che la sua voce è stata molto più di una eccellente dote.

Dopo svariati biopic sfornati dalla recente cinematografia, era lecito rendere omaggio a questa interprete musicale senza eguali, quindi da Anthony McCarten, sceneggiatore di Bohemian Rhapsody ed esperto in materia di personaggi realmente esistiti (L’ora più buia, I due papi, La teoria del tutto), prende forma Whitney – Una voce diventata leggenda, diretto dalla froamericana Kasi Lemmons che, regista di Harriet La baia di Eva, vanta anche un passato di attrice (Stress da vampiro, Candyman – Terrore dietro lo specchio e Senza tregua nel curriculum).

Dai primi anni Ottanta fino agli ultimi giorni della sua esistenza, quindi, viene raccontata la storia di una Houston interpretata dall’astro nascente Naomi Ackie, vista in Lady Macbeth, alla quale spetta il compito di farci rivivere quelle ricche emozioni vissute sulle note di svariati successi come I wanna dance with somebody e I will always love you.

Si parte dal 1983 e Whitney (Ackie), figlia della cantante Cissy Houston (Tamara Tunie), cerca di farsi strada sfoggiando sul palco le sue doti canore più uniche che rare. Il successo arriva presto, ma quello che lei guadagna in gloria finisce di perderlo in una vita tempestata di scelte sbagliate ed eccessi, trovando sempre accanto a sé l’amica fidata come Robyn Crawford (Nafessa Williams) e il marito Bobby Brown (Ashton Sanders), come pure il manager Clive Davis (Stanley Tucci).

Come in altre recenti biografie in fotogrammi, Whitney – Una voce diventata leggenda tende a cercare di ammorbidire le parentesi maggiormente drastiche del personaggio di cui narra l’esistenza; ma sembra anche calcare eccessivamente la mano, portando nella sua lunghissima durata (quasi due ore e mezza) un velo di innocuità perfino quando si tratta di parlare dei momenti scomodi della Houston.

E sacrifica il discorso artistico del caso, tanto da sbrogliare il più velocemente possibile la genesi dei vari successi musicali houstoniani, e guida lo spettatore tra i conflitti che ci sono tra la protagonista, resa da una Ackie in parte, e altri suoi conoscenti, come il complicato padre John interpretato da Clarke Peters.

A fronte di tutto ciò, però, è impossibile non notare come Whitney – Una voce diventata leggenda non incida alla fine sulla verità dei fatti, sorvolando totalmente sulle violenze domestiche di Brown e, al massimo, accennando minimamente alle droghe e abusi vari.

Aspetti che rendono la biografia talmente innocua da risultare quasi inutile, sebbene scorra via senza problemi. Probabilmente ciò per mantenere il massimo rispetto nei confronti della Houston, ma, se l’intenzione era quella di portare sullo schermo le difficoltà esistenziali della protagonista, il discorso affrontato da Whitney – Una voce diventata leggenda conferisce l’impressione di essere stato lasciato a metà.

 

 

Mirko Lomuscio