Wonder Woman 1984: quando eravamo Reagan

È un flashback ambientato durante l’infanzia della Diana Prince principessa delle Amazzoni cresciuta su una ignota isola paradisiaca ad introdurre Wonder Woman 1984, sequel del Wonder Woman che ha provveduto nel 2017 a trasferire su grande schermo la supereroina dei fumetti DC Comics creata nel 1941 da William Moulton Marston, già al centro di una popolare televisiva prodotta tra il 1975 e il 1979.

Sequel che, disponibile su Amazon Prime Video, Apple Tv, Youtube, Google Play, TIMVISION, Chili, Rakuten TV, PlayStation Store, Microsoft Film & TV, Sky Primafila e Infinity, a differenza del primo capitolo non si svolge nel 1918, bensì, come il titolo stesso suggerisce, sceglie quale ambientazione temporale gli anni Ottanta, calando nuovamente Gal Gadot nei panni della protagonista, immediatamente impegnata in imprese proto-Superman.

Quindi, dopo essersi confrontata con la prima ondata di meccanizzazione del mondo, Diana Prince, che adesso si occupa di antichi manufatti, si trova ad avere a che fare con un genere umano all’apice del proprio successo.

Il genere umano dell’epoca della presidenza reaganiana, immerso nel benessere e convinto che si possa avere tutto; come pensa anche il Max Lord incarnato da Pedro Pascal, aggressivo affarista bramoso di petrolio e che, facilmente associabile (soprattutto nel look) ad un giovane Donald Trump, è il villain di turno delle circa due ore e mezza di visione.

Circa due ore e mezza che, se da un lato vedono anche il ritorno di Chris Pine nel ruolo della ex spia americana Steve Trevor, dall’altro introducono il personaggio della goffa scienziata Barbara Minerva alias Kristen Wiig, la cui vita verrà del tutto cambiata dal potere di una magica pietra.

Perché è proprio quest’ultimo oggetto del desiderio a portare scompiglio in Wonder Woman 1984, la cui sequenza maggiormente emozionante si rivela, senza alcun dubbio, quella della battaglia nella periferia del Cairo, orchestrata tra veicoli che si ribaltano, bambini in pericolo e l’agile donna armata di letale Lazo di Hestia impegnata in acrobazie fisiche.

Sequenza riuscita grazie soprattutto al lodevole lavoro svolto dagli stunt e che, insieme all’apparizione dell’armatura dorata in uno degli scontri e ad una simpatica sorpresa posta durante i titoli di coda del film, rappresenta l’unico reale motivo di interesse di una continuazione decisamente meno convincente rispetto al capostipite, firmato dalla stessa Patty Jenkins posta qui al timone di regia.

Del resto, non solo la sceneggiatura abbonda in dialoghi degni di un cartone animato rivolto agli spettatori più piccoli, ma, in generale, lo svolgimento non fatica a risultare piuttosto fiacco e poco coinvolgente, conferendo tranquillamente l’impressione che lo spettacolo sia tirato un po’ troppo per le lunghe.

Aggiungiamo poi che l’aria del decennio della musica pop – di cui il lungometraggio attacca chiaramente il dilagante pensiero capitalista – non si respira affatto e che, se Wonder Woman aveva manifestato il pregio di distaccarsi da tanto schizofrenici quanto insostenibili look proto-videoclip di molti cinecomic d’inizio terzo millennio rispecchiando gli stilemi narrativi ed estetici di una Settima arte risalente a molto tempo fa, Wonder Woman 1984 non sfoggia altro che i connotati di una stanca e piuttosto fredda seconda puntata mirata a far scontrare banalmente amore e potere nel ribadire che l’importante è la verità, in quanto dalle bugie non nasce niente di buono.

Senza dimenticare neppure l’immancabile (e forzata) situazione da movimento Me Too con molestatore di turno… fino ad un epilogo trasudante oltretutto patetico buonismo, tipico del sempre più imperante politically correct della Hollywood del XXI secolo.

 

 

Francesco Lomuscio