X & Y – Nella mente di Anna: slancio intimo ed estro creativo di Anna Odell

Già con l’eccentrico ed estroso film d’esordio The reunion l’audace regista svedese Anna Odell, interpretando se stessa in un’adunanza di ex compagni di classe con parecchi scheletri nell’armadio, aveva saputo unire la densa contemplazione del reale ad alcuni cortocircuiti poetici carichi di significato.

L’uscita in sala, seppur tardiva, del provocatorio ed eccentrico thriller X & Y – Nella mente di Anna conferma appieno la sua attitudine ad amalgamare crudezza tangibile ed empiti fantasiosi per tenere sulla corda persino gli spettatori più scaltriti.

Sedotti dalle modifiche apposte nell’intrigante opera prima rispetto agli schemi collaudati dall’illustre collega nordico Thomas Vinterberg in Festen. Consentendo ai nodi tesi allo spasimo di venire al pettine sulla scorta degli idonei stilemi horror, dei rimandi ad affreschi generazionali, tipo Il grande freddo di Lawrence Kasdan, entrati a buon diritto nell’immaginario collettivo, e d’interpolazioni singolari ed estrapolazioni eversive. Proprie dell’alacre cinema di pensiero che all’inane sinfonia compositiva e alla narrazione a corto d’ingegno privilegia i sagaci colpi d’ala in chiave sperimentale. Gli spunti di riflessione offerti da capolavori come di Federico Fellini ed Effetto notte di François Truffaut stabiliscono ora, l’uno sul versante fantasy, l’altro su quello romantico, il nuovo punto di partenza per trasportare sin dall’incipit il pubblico in un’atmosfera diversa dal canonico mondo dei sogni, esplorato dagli apologhi postimpressionisti, ma ugualmente capace di sottrarsi ai fatui segni d’ammicco. Non è infatti il piacere d’inventare, mero biglietto da visita spesso dei falsi guru incapaci di approfondire sul serio lo spigoloso e sempiterno rapporto tra arte ed esistenza, a spingere Anne Odell ad anteporre il sarcasmo feroce, l’epidermica angoscia, gli impacci sinceri ai ricami introspettivi. Capire cosa c’è dietro il sipario della finzione, romperne l’emblematico velo, risolvere l’ennesima radiografia connessa al dietro le quinte di turno in guizzi tecnici scevri dagli show di medio impegno dedicati ai soliti scandagli dei pur simpatici microcosmi, cari alle platee senza tante pretese, implica l’incognita d’infastidire anziché rallegrare chi cerca di divertirsi anche con gli stimoli creativi condotti all’estremo.

A supplire al rischio di mettere troppa carne al fuoco provvedono la duttile cura degli spazi, l’arguta dinamica del campo/controcampo, con il vanitoso ed esperto attore danese Mikael Persbrandt felice d’instaurare insieme ad Anna una desueta terapia partendo dai giochi di seduzione, l’ampia sfera degli stupori intimi, l’input di rimanere nei personaggi, schiavi degli impulsi libidici, per l’intera durata del progetto. La routine dei provini per trovare tre alterego uomini e tre alterego muliebri in grado di garantire il pluralismo d’ascendenza pirandelliana al succedersi degli imprevisti, all’ineluttabile diktat dell’improvvisazione, all’animazione delle circostanze interiori ed esteriori, talvolta ai limiti della sostenibilità emotiva, paga dazio al carattere generico dell’inidonea sintesi. Al contrario il valore terapeutico dell’umorismo, scaturito dai circoscritti scompensi nel ritmo, delegato agli originali piani di montaggio, dalle crisi di rigetto dei partecipanti, dalle punture di spillo conferite ai produttori, preoccupati di ricavare un’appetibilità commerciale dalla pianificazione autoriale, attinta sotto molti aspetti ai precetti del pretenzioso manifesto programmatico Dogma 95, genera effetti esilaranti. Pure acutissimi in determinate sequenze intrise di acume parodistico. Che spolverano di ridicolo il chiodo fisso della vita in comune, oggetto invece di seria analisi da parte dei maestri eletti a numi tutelari. Salvo correggerne con la suspense tragicomica, l’intelligente mutevolezza di toni, l’incisività del documentario soggettivo, alieno all’impasse dei cascami romanzeschi, gli sbadigli dovuti al taedium vitae. Spacciato, con il beneficio dell’inventario, per amor vitae. Stretto d’assedio, secondo copione, dall’arcinoto cupio dissolvi.

Mentre le riprese dall’alto del teatro di posa scopiazzano alla bell’e meglio l’evocativo impianto scenografico allestito in Dogville da Lars von Trier, anch’egli piuttosto svelto a interrogarsi con Le cinque variazioni sulla sospensione dell’incredulità, sul bisogno di ritrarre al naturale l’ansia di distinguersi e sull’istanza magica congiunta al passaggio dalle scelte estetiche ai quesiti strutturali ed etici, il febbricitante pathos dipinto sui volti inaspriti dal tour de fource imposto dall’autocrate Anna trascende l’accidia dei nani sulle spalle dei giganti. Ai bla bla degli psicologi chiamati ad analizzare narcisismi, maschi alfa e donne ragno, che comunque fanno un baffo all’ineguagliabile Sônia Braga, replica l’arguzia delle ottiche satiriche intente a scoprire nel paradigmatico chiaroscuro i rilucenti livelli di coinvolgimento carnale. L’intarsio d’intense ed eterogenee prospettive, viste sia dal di dentro che dal di fuori, tradisce l’irrompere dei sentimenti amorosi, dell’incertezza, dell’immancabile rovescio della medaglia. Ed ergo, a discapito dell’attenzione per l’antiretorica, ravvisabile nella fugace potenza dell’invisibile, dispiegata in filigrana, degli ampollosi accenti. Composti di grida, serrati botta e risposta, rumori stridenti. Fortuna che al fuoco incrociato dei fermenti, frutto delle vetuste contraddizioni della natura umana, prevalga la destrezza dell’enigma, dell’aura contemplativa e del principio di consequenzialità. Associato alla virtù di racchiudere il senso d’una partecipazione alle soglie dell’estasi distruttiva. X & Y – Nella mente di Anna la rende costruttiva, e quindi avvincente, al pari d’un viaggio irto d’ostacoli ed empatiche sorprese con uno sprint intellettuale che sa trarre linfa dall’ausilio del cuore.

 

 

Massimiliano Serriello