Yaya e Lennie – The walking liberty: personalità animation ed epos generico di Alessandro Rak

I segni d’ammicco disseminati nell’ambizioso film d’animazione Yaya e Lennie – The walking liberty spingono i cinefili a riflettere sulle intenzioni del regista partenopeo Alessandro Rak. Artefice già dei singolari cartoon movie L’arte della felicità, imperniato sulla geografia emozionale profusa dalla città del Sole alle soglie dell’esotico, e Gatta Cenerentola.

Con l’immensa nave futuristica e il porto di Napoli ridisegnati per conferire a entrambi un denso magistero evocativo. L’inno alla libertà, ed ergo all’egemonia dell’ordine naturale delle cose sui severi consorzi organizzati dagli uomini, rei secondo Rak di generare dolorose ingiustizie, è un pretesto per esibire pregnanti riproduzioni autografe ed esercizi stilistici zeppi d’insistiti colpi di gomito o costituisce l’afflato etico dell’assoluta impellenza espressiva?

L’inclusione sociale, gli scenari post-apocalittici, i punti di vista diametralmente opposti in merito ai valori ereditati dalla tradizione, compreso il diritto al comando degli aristoi (i migliori dal greco ἄριστοι), e alla contemplazione anarchica, volta ad anteporre l’influenza dell’habitat selvaggio sui corretti modi di agire agli ipocriti segni di civiltà, sono temi largamente sfruttati dagli Autori con la “A” maiuscola. Coniugando al potere dell’immaginazione e all’attendibilità degli spettacoli immusoniti l’acme mitopoietico di luoghi spaventosi ma magici. La maestria d’allegare il rigore dei timbri antropologici ed etnografici ai voli pindarici del carattere d’ingegno creativo non è certo un’esclusiva delle pellicole con gli attori in carne ed ossa, con la realtà colta dal vivo (anziché replicata per mezzo degli artigianali acquarelli giustapposti alla profondità di campo conseguita dalla tecnica dell’avvertita Signed distance function), con i fattori visivi garantiti dalle scenografie per arredi collocate sullo sfondo. Accrescendo l’interesse degli spettatori per i semitoni degli elementi ambientali. Basta guardare i capolavori di Hayao Miyazaki, da Conan il ragazzo del futuro a La città incantata, per rendersi conto di come la luce dei paesaggi riflessivi, gli effetti empatici, l’identità specifica degli appropriati teatri a cielo aperto appartengano alle salde personalità animation. Non è un caso che negli interni, rappresentati soprattutto dalle baite di legno fornite d’ogni confort per consumare lauti pasti a ritmo compulsivo, compaia l’effigie del libro Io speriamo che me la cavo, il manifesto del cult Il grande dittatore di Charlie Chaplin e il poster dell’irrinunciabile nume tutelare Conan il ragazzo del futuro. L’indubbia simpatia del richiamo citazionistico, legato alla cultura postmoderna seguita dall’anarcoide Quentin Tarantino mettendo Antonio Margheriti e Francis Ford Coppola sullo stesso piano, è una freccia all’arco di Alessandro Rak. Che sparge i semi del linguaggio universale congiunto al luna park tarantiniano di rimandi nelle peripezie di Yaya e Lennie. L’intesa, rinvigorita dalle schermaglie dialettiche, dell’ormai cresciuta scugnizza dalla pelle mulatta con l’ingenuo molossoide alla Primo Carnera, dall’animo puro e dalla forza prodigiosa, cede alle tentazioni del facile divertimento procurato dalla foga con cui la strana coppia di fratelli del cuore spazzola il cibo come fossero due idrovore.

Al contrario la preparazione del pranzo consumato alla velocità dell’ultrasuono costeggia alcuni garbati apologhi sul valore romantico delle pietanze frutto dell’amore per la cucina tipo Mangiare bere uomo donna di Ang Lee. Nondimeno il mix d’ammiccanti echi ed enfatici controechi – da Apocalypse now di Coppola ad Apocalypse domani di Margheriti; da L’oro di Napoli, col Pazzariello impersonato dal Principe Totò in evidenza, agli affreschi immaginifici, in filigrana, di James Cameron e Tim Burton – tradiscono incongruenze abbastanza curiose. Di cui soffre la trama orchestrata dal pur versatile Alessandro Rak secondo parametri non sempre conciliabili. Gli stilemi fumettisti, i tratti distintivi dell’animazione, che si differenziano per le attinenze fisionomiche, il ricorso al meta-cinema, privo comunque della virtù di Tarantino nell’eludere le distinzioni tra cultura alta e cultura bassa, infatti, non arrivano mai sottopelle. A dispetto degli appelli strappalacrime affidati alla voce fuori campo di Lina Sastri, che trasmette alla guida incorporea della defunta zia Claire l’egemonia dello spirito sulla materia, e alle modalità esplicative dei vari brani musicali, sparsi a raggiera con buona pace degli eloquenti silenzi dell’antiretorica, l’attitudine ad amalgamare strade vecchie, scambiate per nuove nonostante risultino battute se non asfaltate dagli illustri capiscuola, mostra presto la corda. L’infeconda retorica del tropicalismo caro all’ineguagliabile guru Glauber Rocha in Il dio nero e il diavolo biondo, dell’ascetica atemporalità, dell’oppressione esercitata dalle glaciali istituzioni, dell’inno libertario profuso dai compañeros rivoluzionari, agli ordini del macchiettistico leader sudamericano che sfoggia il tatuaggio del compianto Maradona sul braccio, sciupano così l’originalità degli accorgimenti figurativi. La smania inoltre di mettere in cantiere l’ennesimo spettacolo d’incanti e fremiti, ora grondanti tenerezza ora farseschi, con gli sbirri istituzionali costretti a battere in ritirata in abiti femminili, tradisce l’inane vanagloria di esporre ed esplorare tecniche di ripresa agli antipodi.

La precaria polivalenza contenutistica traligna sicché in ampollosità. Sovraccarica di note gravi appaiate programmaticamente ad altre allegre, d’incontaminati panorami, o quasi, d’accampamenti arcaici, di manti verdi, di alberi millenari, di quartier generali attinti a Guerre stellari. L’impasse delle idee prese in prestito – quantunque veicolate dall’abilità di unire la gamma cromatica e la nutrita galleria di personaggi (sedotti dall’inno alla bontà di Chaplin ne Il grande dittatore o fedeli all’utopia dei sodali duri nella lotta ma leali nell’animo) alla colonna sonora sulla falsariga dell’antesignano Oskar Fischinger in Radio Dynamics – sottraggono brio ai dottrinali movie moments. Sprovvisti all’atto pratico dell’estro di aggregare i timbri acuti frammisti ai coefficienti spettacolari alla sagoma delle roccaforti erette dai dittatori e il fruscio del vento alla spontaneità di tratto. Il mestiere non manca. Però la magistrale efficacia del colore-musica e della pittura in movimento resta un’irraggiungibile vetta. Che Alessandro Rak prova a scalare con troppa carne al fuoco. Il carico pesante – esacerbato dall’inclinazione, tradotta nel passeggero cortocircuito dell’impianto iconico, a prendere fuoco ed eruttare dinanzi ad aut aut d’ogni sorta – impedisce ai vulcanici Yaya e Lennie di trasmettere l’idonea leggerezza. Ad appannaggio, invece, del guru Miyazaki. D’altronde, checché ne dicano i comici involontari del sabato sera confondendo l’infausta indigeribilità con l’arguta profondità, la cultura giapponese non c’entra nulla con quella napoletana. L’opera di accostamento, ansiosa d’inserire carezzevoli uova di Pasqua lungo l’intero excursus, disperde quindi l’ambìta ampiezza di prospettive nei cali di personalità. In tal modo la zuffa ideologica, l’estetica dell’amore, preferita al dunque all’estetica della fame di Glauber Rocha, il temperamento vivace, le punte di sarcasmo, lo spessore dei sentimenti pagano dazio a una personalità animation in fase d’eterno rodaggio. Ragion per cui Yaya e Lennie – The walking liberty tiene poco legati alla poltrona. E nell’epilogo, con la vena elegiaca passata in cavalleria per cedere spazio alla smielataggine delle soap opere sfornite di fosforo, ci scappa pure qualche sbadiglio. L’incognita peggiore per l’animazione.

 

 

Massimiliano Serriello