I criteri di valutazione dei premi cinematografici innescano spesso trascurabili prese di posizione pro o contro il diritto al merito d’un’opera frutto del carattere d’ingegno creativo piuttosto d’un’altra. Ma al di là del pluralismo dei punti di vista concernenti la piena legittimità di certe assegnazioni, comunque soggette ai limiti dell’impressionismo soggettivo, il cortometraggio Prova d’amore con Denis Nazzari al timone di regìa, l’intenso Alessandro Haber nel ruolo del memorabile protagonista e l’acclamato Nicola Piovani nelle vesti del compositore della colonna sonora, è riuscito a mietere allori ragguardevoli. Dal premio Flaiano al tributo conferito alla tredicesima edizione del WatchOut! International.
Anche se il riconoscimento a cui il misconosciuto ma avvertito Denis Nazzari, cresciuto nel buio della sala amando tanto i film commerciali di presa immediata quanto quelli legati all’aura contemplativa, ricorda con maggior trasporto è quello ottenuto al Teatro Patologico come film sulla disabilità e sull’integrazione da un pubblico pervaso dalla fragranza dell’assoluta schiettezza di giudizio. Senz’altro sensibile al tema dell’handicap. Tuttavia Prova d’amore, inscritto nella folta lista dei corti in lizza per i David di Donatello, non è un’opera a tesi. Né unicamente un’opera di un autore avventizio, avvolarata dal contributo decisivo di due conosciutissimi addetti ai lavori. Ciò che è degno di rilevanza per una campagna promozionale non rientra nelle qualità estetiche ed espressive in cui l’autore, quantunque alle prime armi, mitiga il noto istrionismo di Haber, sino alla soglia dell’idonea sottorecitazione, e si serve delle musiche alla stregua d’un utile tassello del ben più ampio ed emblematico mosaico d’idee ed emozioni.
Sicuramente l’apporto di Alessandro Haber per quanto riguarda la psicotecnica recitativa e di Nicola Piovani per la punteggiatura melodiosa contribuisce a cementare la cosiddetta “poesia del quotidiano”. Da par suo Denis attribuisce un cospicuo rilievo alla cura dei dettagli disponendo di un’elegante abitazione di proprietà dello stesso Haber, arredata con gusto; i valori figurativi risultano perciò fondamentali se non topici per il senso complessivo della scrittura per immagini. Ma resta compito specifico del regista che ambisce a essere eletto ad autore convertire i valori visivi in valori introspettivi. L’immediato inizio, apparentemente scarno ed essenziale, sciorina un timbro evocativo giacché richiama alla mente l’inizio del film d’impegno civile La scorta con l’anziano genitore che prepara una modesta ma dignitosa tavola, controllando il sugo, in attesa del figlio poliziotto.
Da lì a poco l’intento iniziale, di per sé piuttosto didascalico, ed ergo privo di autentico mistero, prende corpo. Matura. Progredisce. Ricavando linfa dalla capacità di scrivere con la luce dell’abile fotografia. Che – ancor più della destrezza mimica di Haber (forte comunque d’una maschera molto persuasiva) e dell’accompagnamento musicale di Piovani deciso a cadenzare persino qualche attimo di pathos col fiato sospeso – diviene la ciliegina sulla torta del cortometraggio.
La scelta delle inquadrature, conformemente alla preparazione della colazione da parte del protagonista impersonato da Haber, si riallaccia maggiormente allo stile di ripresa del vegliardo James Ivory in Quel che resta del giorno anziché all’oltranzismo stilistico di scuola neorealista. Volta ad anteporre il piano-sequenza agli stacchi di montaggio. La ripresa di quinta che pedina Haber lungo l’imprescindibile corridoio – un luogo dell’anima per i seguaci di Michael Mann e Nicolas Winding Refn – è accompagnata dal lirismo della colonna sonora che partendo dall’abile giro di chitarra introduttivo fa seguire nel crescendo dell’impennata sinfonica ed espressionista il surplus risoluto degli strumenti ad hoc. Tot capita tot sententiae: essendo la sequenza girata meglio, giacché fortemente sentita da Denis (balza agli occhi dall’incedere delicato ed empatico sulla carrozzina che crea quasi un rapporto di coalescenza tra autore e attore), forse sarebbe stato più opportuno ricorrere al lavoro di sottrazione. Rinunciando in questa circostanza alla scansione della musica. Che poco prima, quando l’infermo per amore, che vuole provare ciò che sente sulla propria pelle la persona al suo fianco, chiude la porta a tutela della legittima riservatezza, lascia circolare un ché di retorico. A differenza del momento in cui Haber prende la macchinetta del caffè, ne versa una buona quantità nella tazzina, lo gira. In quel caso la regìa stende le basi per un ritratto meno caramelloso sull’amore incondizionato. In quanto i convincenti mutamenti di tono
imprimono al racconto, pur breve, le slogature delle emozioni care al compianto Enzo Siciliano nelle quali risiede altresì il fondamento di cosa significa vivere sulla sedia a rotelle preservando le debite premure per la compagna di vita. Denis sa cogliere certi rituali quotidiani connessi al linguaggio dei gesti. Spesso sobri ed eminentemente carichi di significato. Potrebbe dar quindi vita a un teorema di gesti e suoni rivelatori, per la storia da raccontare, dando maggior rilievo ai semitoni, pienamente nelle sue corde, piuttosto che ai segni d’ammicco della recitazione e della musica. Un bravo attore consente in ogni caso di definire al meglio determinate sfumature psicologiche. E una musica ingegnosa ed emozionante sa senz’altro sottolineare in note quelle sfumature. Ma si tratta di contributi. Di pedine. Subordinate alla cifra stilistica dello scalpitante Denis. Come la fotografia del sempre eccellente Nino Celeste, Tanto efficace proprio perché non è mai invadente. L’autore in erba, con tanti anni spesi però da cinefilo indefesso ed entusiasta per accumulare spunti decisivi a compiere il salto da spettatore a regista, possiede le doti del ritrattista attento, munito di sensibilità, ed è la sua cifra stilistica che deve costituire la chiave di volta.
Non per vincere un David di Donatello, sia pure gradito, bensì per comunicare in maniera sostanziale ed esaustiva la propria idea sul mondo attraverso un peculiare modo di filmare. Che lo spinge a usufruire dei nobili contributi al servizio di una disadorna ed eclettica materialità. Affine all’egemonia dello spirito dettata dalla nobiltà dei sentimenti. Ed è mettendosi nei panni della dolce metà, afflitta ma non vinta dell’handicap, che Prova d’amore certifica questi ieratici batticuori.
Di seguito, un piccolo video del momento in cui Prova d’amore ha ricevuto il premio al Film sulla disabilità e sull’integrazione presso il Festival Internazionale del Cinema Patologico.
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