Dopo aver esordito in cabina di regia nel dramedy autoctono Ride senza comparire come attore dalla simpatia genuina e dalla consumata psicotecnica recitativa, al fine di esplorare l’elaborazione del lutto per una morte bianca sul lavoro attraverso l’egemonia al femminile dell’insolito slancio surreale sull’enfatico stallo esistenziale d’una vedova ritrosa dinanzi all’ipocrita galateo delle condoglianze, Valerio Mastandrea decide di esprimere i tratti distintivi del suo cinema sia davanti ché dietro la macchina da presa.

L’eccentrico ed empatico apologo, dal titolo carico di senso, Nonostante, imperniato sulla labilità emotiva e sul bisogno di superarla, ben si presta a esporne appieno il linguaggio umanissimo, attento ad anteporre la forza significante dell’intesa sui valori basilari al baratro dell’insanabile disaccordo, per mezzo tanto dell’alacre scrittura per immagini quanto dei chiaroscuri del personaggio principale incarnato sulla scorta d’una maggiore consapevolezza rispetto alle prove giovanili. Esercitando il diritto alla fantasia che veicola l’opportuno carattere d’ingegno creativo nei binari dell’aura contemplativa estranea alla mera e algida astrazione.

Lo attesta subito il ricorso al fuoco selettivo impiegato nell’incipit di Nonostante per sancire il passaggio in filigrana dall’astratto al particolare. Percepito nella cerimonia funebre celebrata nell’ospedale capitolino dove l’uomo sospeso nel limbo, tra la vita e la morte, col volto ora divertito ora risentito, per i cambiamenti da cui rifugge, di Mastandrea si aggira insieme ad altri ricoverati. Usciti anch’essi dal proprio corpo reduce dalla terapia intensiva. In attesa di capire se essere trascinati dalla commare secca che ha appena ghermito l’ennesimo infermo agli sgoccioli o scampare al coma. Al deep focus che ne svela l’identità, invisibile a tutti tranne che a un cantante amatoriale in apparenza grossolano, fa seguito la direzionalità dello schermo a semicerchio. Conforme alla struttura dell’edificio delegato all’assistenza sanitaria pubblica ma alieno allo stream of consciousness esemplificato in segreto. Nel territorio del privato per eccellenza costituito dalle esperienze ai confini dell’aldilà. Già ampiamente trattate dalla fabbrica dei sogni, abile da sempre ad approfondire i meandri più segreti di qualsivoglia incubo a occhi aperti, con film commerciali tipo Linea mortale di Joel Schumacher e pellicole d’autore della levatura di Enter the void dell’estroso Gaspar Noé. Mastandrea, intento ad analizzare i limiti imposti dalla realtà dispiegando step by step la tempra necessaria ad accettarli, anziché dare un colpo alla botte della ricercatezza e uno al cerchio dell’immediatezza, allestisce una sorta di tappa indagativa all’insegna del proverbiale piglio malincomico. Che affronta con semplicità i complessi fenomeni connessi alla sigla NDE (Near Death Experience). L’aria di leggerezza e complicità, assurta ad antidoto contro la crudezza oggettiva da Warren Beatty ne Il paradiso può attendere, permea anche il prosieguo di Nonostante. Mentre l’effigie reiterata del salto in lungo che include l’incapacità di buttarsi, persino lontano da occhi indiscreti, abbassa l’asticella confronto ai lampi d’intelligenza esibiti nelle dinamiche relazionali dai toni sovente sarcastici degli individui schiavi secondo i neuroscienziati di sensazioni soggettive esacerbate dai traumi patiti, l’itinerario narrativo preparato su carta con Enrico Audenino, artefice pure dell’efficace sceneggiatura del biopic in chiave mélo Padrenostro di Claudio Noce, trae linfa dalla destrezza di conferire alla convivialità e al desiderio di tenere all’erta l’arguzia reciproca mediante qualche sana derisione lo stesso spessore introspettivo ed etico del contegno caro ai seguaci dell’erudito lavoro di sottrazione d’ascendenza bressoniana. Assorbito dall’utilizzo di suoni diegetici che vanno sottopelle. Sconfessato, al contrario, dalle eccessive impennate emotive congiunte alla musica extradiegetica.

La routine interrotta dall’arrivo d’una ragazza sudamericana ostile all’aleatorietà nella quale campeggia chi vuole sfuggire all’accettazione della sofferenza, invece di fronteggiare le difficoltà a testa alta, rialza l’asticella. Le schermaglie dialettiche, la fertile alternativa alle convenzioni degli spettacoli accigliati, l’ubi consistam della palingenesi dolceamara, simile a quella mandata a effetto in Qualcosa è cambiato da James L. Brooks, l’apposito governo degli spazi, dapprincipio al chiuso, poi all’aperto, rimediano ad alcune scollature. Ravvisabili nell’abitudine a zappettare l’orticello di casa. Con il risultato di zompare di palo in frasca allorché si muta prospettiva. La gita della gente meno propensa a tollerare gli imprevisti risulta viceversa tempestiva per trascendere i limiti delle opere a tesi e da camera. Concentrate nelle opprimenti quattro mura. L’interazione di ripiego tra interni limitati ed esterni agognati cede così la ribalta alla funzione mitopoietica dei luoghi adatti a riverberare i modi d’agire e di reagire alle complicazioni, divenuti concordi, della novella coppia che sbuca nel punto catartico d’una vertiginosa diga. I legami, inafferrabili ormai dal mero raziocinio, raggiungono dunque il diapason. Suggellato dalla sequenza subacquea che sembra strizzare l’occhio a L’Atalante di Jean Vigo. Ad andare oltre l’intoppo narcisistico dei colpi di gomito, che trascinerebbero sennò il plastico vigore evocativo degli attimi topici in una logora traccia di formalizzazione simbolica priva di sbocchi degni d’effettivo rilievo, provvede la densità contenutistica della scoperta dell’alterità. Ovvero ciò che esula dalle patologie croniche, dai pensieri negativi, dagli aspetti adattivi, dalla paura, dall’imbarazzo, dall’atroce eventualità dell’oblio unito al risveglio tardivo con la memoria azzerata degli avvenimenti avvenuti nell’atmosfera sospesa. Nel trasformare l’avverbio in un sostantivo, che specifica sul versante dell’affettuosa indulgenza per la coppia destinata a prendere obtorto collo strade diametralmente opposte la rilevanza della polpa rinvenibile nel percorso accettato con insolita audacia sulla gelatina dello stanziamento pusillanime, Mastandrea regista palesa ampi margini di miglioramento.

L’interprete Mastandrea, rivistosi al montaggio alla stregua del degente con le membra allettate, sciorina una performance estremamente misurata. Conforme alla dignità di varcare la soglia della terra inesplorata dell’inobliabile Amleto di Shakespeare, con il biglietto di ritorno non pervenuto, sulla scia d’una consapevolezza maturata palmo a palmo. Le figure di fianco affidate alla bravissima Laura Morante, nel ruolo dell’avvenente donna di mezza età che si sveglia dallo stato d’incoscienza convertito in un patto tra pochi intimi, e all’intenso Lino Musella, nelle vesti del paziente deciso a sottrarre l’ultimo saluto alle secche della mera retorica strappalacrime, non si limitano a timbrare il cartellino. Bensì conducono l’assunto avviluppato altrove nella suspense degli ascetici thriller a un elevato grado di chiarezza. Distante anni luce dalla fatalità sinistra dei rompicapo spacciati dai finti dotti per chicche intellettuali. L’approccio antiaccademico di Mastandrea, svelto a indirizzare il cast fedele al carattere d’autenticità in un mosaico d’impeti nervosi e generosi mediante una serie di primi piani che affiancano la potenza dell’occulto ingentilendola, giova specialmente al profilo di Venere che lascia il disincanto per l’incanto. Dolores Fonzi, musa di Santiago Mitre in Paulina, gli assicura la carica immedesimativa garantita all’insegnante di diritto impegnata a sopperire all’atavica ignoranza degli abitanti delle zone remote dell’Argentina. L’eclettico comico marchigiano Giorgio Montanini, nei panni del vocalist dilettante provvisto di medianità, ribadisce il poetico pudore del valore terapeutico dell’umorismo di fronte a quello predominante dello spiritismo. Impreziosito da Nonostante con una leggerezza che elude l’elegia, scartando quindi le code stregonesche ed eminentemente sciccose del prodigo David Lowery in Storia di un fantasma, e stempera il nodo alla gola nell’attitudine dell’ideatore romano, disposto a raccontarsi in una dimensione allusiva, ad amalgamare al dramma la commedia dell’arte. Che esorta qualunque tipo di spettatore, avvertito o ingenuo, a ridere amaramente e a riflettere ironicamente.


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