Quali sono oggi come oggi le varianti del cinema di denuncia nordafricano? Nelle opere di particolare pregio culturale ed espressivo a fare la differenza è solo ed esclusivamente la conoscenza intima del tema in questione da parte del regista eletto ad autore con la “a” maiuscola. Nei film d’impegno civile il valore aggiunto risiede nella contaminazione dei generi.
Una sconosciuta a Tunisi, in quest’ottica, almeno sulla carta, attraverso le traversie dell’immusonita Aya, sotto scacco tanto dell’autocrate principale divenutone l’ipocrita amante quanto degli indigenti genitori decisi a darla in sposa al miglior partito in circolazione, sembra riuscire ad amalgamare i sovraindicati tratti distintivi. Diametralmente opposti tra loro.

Lo sforzo profuso dietro la macchina da presa dall’ambizioso Mehdi M. Barsaoui, nato quarantuno anni or sono proprio a Tunisi, è dispiegato nell’incipit in degli speculari ed emblematici carrelli da destra a sinistra. Che, nella direzione contraria all’ordine naturale delle cose unanimemente percepito, sottintendono l’irrompere di contesti da brividi. In grado di tenere gli spettatori col fiato in gola. Quando affiorano nell’ambito della densa scrittura per immagini, in apparenza rigorosa ed essenziale, gli inequivocabili stilemi della geografia emozionale, con la natìa Touzer, città nel sud-ovest dell’ermetico territorio tunisino, attiguo al deserto del Sahara e del lago salat, assurta ad attante narrativo colmo di forza significante sul versante simbolico, l’asticella si alza nettamente. Le stanze dell’albergo-prigione da pulire, l’immagine allo specchio d’ascendenza bergmaniana, l’interazione sia tra habitat ed esseri umani sia tra interni oppressivi ed esterni allegorici, i disadorni consorzi domestici, la minivan che tutte le mattine conduce Aya in albergo, insieme ad altre impiegate aliene a qualsivoglia empito d’orgoglio, cadono però, man mano, nell’impasse delle programmatiche opere a tema. La smania inoltre di mettere troppa carne al fuoco finisce per sconfessare step by step il lavoro di sottrazione chiamato in causa dapprincipio. Soprattutto al fine di congiungere il meditabondo rapporto dei sobri ma rivelatori timbri visivi e sonori con l’arguta analisi introspettiva degli assilli femminili dinanzi a una parità legale negata quotidianamente a causa dell’infausta involuzione delle condizioni finanziarie al termine della cosiddetta primavera araba.

Mentre la scelta stilistica ed espressiva di escludere l’oasi di Chebika vicino a Tourif e includere invece l’incerto percorso accidentato nel quale precipita l’incauto minivan, dopo aver caricato a bordo un’ospite femminile estranea alle incombenze dell’attanagliante albergo di lusso, in antitesi con le tribolazioni delle classi povere, risulta pienamente azzeccata, in virtù della solerzia degli esami comportamentistici connessi all’innegabile carattere d’autenticità, il prosieguo paga dazio al cliché degli ostacoli da superare sulla scorta dei meri elementi di suspense del genere d’avventura. L’avvertita contaminazione dei generi perde così parecchi colpi. La nuova identità assunta da Aya per voltare pagina, facendosi credere morta carbonizzata al pari delle colleghe e dell’autista dello sventurato minivan, innesca l’ausilio d’inani luoghi comuni. Infatti l’approdo a Tunisi sotto mentite spoglie, anziché permettere al climax predisposto dall’ambizioso Mehdi M. Barsao di beneficiare d’una marcia in più, convertendo il racconto dai modi crudi ed evocativi in un pungente scandaglio ambientale del luogo a lui caro tramutato in un inferno soggetto allo stato di polizia, tradisce la marcia all’indietro degli autori avventizi. Il delitto compiuto con la complicità delle tenebre, la testimonianza della donna in cerca di una nuova vita, la pressione esercitata dalle forze dell’ordine per portate l’acqua al loro mulino rientrano nell’ordinaria amministrazione d’ogni stereotipo sui gendarmi corrotti. Che esercitano qualunque tipo di pressione per mettere a tacere testimoni scomodi e veicolarne altri ricattabili.

La morale della favola, con Aya che trova il coraggio di sottrarsi al ricatto per servire un’idea di giustizia ormai ritenuta obsoleta, traligna il fiero rifiuto dello spettacolo consolatorio nell’infecondo colpo di gomito dell’enfasi di maniera. L’improntitudine di appaiare il carattere d’autenticità iniziale, a dispetto del sano senso del limite, col carattere d’ingegno creativo, ghermito dall’impianto geometrico dell’intrigo concernente secondo copione la vulnerabilità degli spiriti muliebri dinanzi al braccio violento della legge nella capitale tunisina, scivola sulla buccia di banana d’una giustapposizione dispiegata alla bell’e meglio. La velleità, infatti, di dare un colpo al cerchio della linea di demarcazione tra giustizia ed empietà e uno alla botte dei puzzle al servizio dell’ennesimo clima di mistero con le povere bagnati, senza distinguere stringi stringi i bufali dalle oche, invece di approfondire il tema trattato, a ben vedere assai ritrito in seguito alla rivoluzione dei gelsomini conclusa mestamente, veleggia nell’infertile superficie. Nonostante la riuscita dello spettacolo di secondo piano della recitazione dell’incisiva Fatma Sfar nel ruolo della risoluta Aya, decisa a restituire pan per focaccia a chi muove i fili, lo spettacolo di primo piano della regìa fruga in anfratti, contesti ed enigmi vecchi come il cucco. Una sconosciuta a Tunisi, quindi, pur partendo dall’apprezzabile intenzione di mostrare cosa si cela nei cerimoniali e negli ambienti attanagliati dalle regole avverse ai gelsomini di turno, annaspa. Caricando eccessivamente le tinte. Mantenute in partenza fedeli ai semitoni elegiaci. Alimentati dal tarlo del dubbio e dalla voluttà di riscatto.


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