Accattaroma: Costantini sulla scia di Pasolini

La spontaneità di tratto dell’attore capitolino, originario di Torpignattara, Massimiliano Cardia ha spinto l’esperto regista Daniele Costantini – artefice dell’interessante affresco biografico a sfondo grottesco Fatti della banda della Magliana – a reclutarlo nell’emblematico ed evocativo ruolo del borgataro Vittorio in Accattaroma.

Persuadendolo altresì a cimentarsi negli stimolanti ma ardui panni di produttore del film low budget che dà lustro al cinema di strada, con Pier Paolo Pasolini sugli scudi, ricavando linfa allo stesso tempo dai capolavori di Luis Buñuel. Aedo indiscusso del surrealismo sul grande schermo.

Si tratta dell’ennesimo plagio camuffato da omaggio, che ricorre al carattere d’autenticità per sopperire alla penuria dell’indispensabile carattere d’ingegno creativo, oppure c’è qualcosa di ben più profondo dietro gli evidenti segni d’ammicco dispiegati lungo l’intero arco narrativo? La struttura binaria, con l’interazione tra crudezza oggettiva ed elementi onirici chiamata a fungere da opportuno battistrada del ridondante mix d’echi e controechi, per il gaudio degli spettatori più scaltriti, porta gradatamente a galla pure l’impianto circolare dell’opera a mosaico che introduce le figure programmatiche dei nipotini ideali del fatalista vagabondo Vittorio soprannominato “accattone”. Reso immortale dall’estro di Pasolini. Che aveva pure individuato in via Gregorio VII, nel suo perenne sforzo di abbinare l’hinterland autoctono all’ancestrale Terzo Mondo, la borgata del Gelsomino. Come roccaforte immaginifica d’un microcosmo destinato a essere spazzato via dall’empia modernità. Il luogo dell’anima, a un tiro di schioppo dal fantomatico Rio della Grana e a mille metri dalla camera da letto del Papa, rientra nel concetto di mitopoiesi. Connesso compiutamente alla geografia emozionale. Intesa nella sua migliore accezione. Le riprese ricognitive del punto di partenza, vale a dire via del Mandrione, dove Massimiliano Cardia è effettivamente di casa, veleggiano invece in superficie. Senza quindi andare oltre i consueti colpi di gomito. In merito al percorso compiuto per la strada chiusa al traffico, a causa del pericolo di frane, dove antichità e modernità, rappresentata dai recenti graffiti dipinti sui muri millenari, evocano l’esistenza ai margini dei ragazzi di periferia nonché dell’ultraquarantenne Vittorio.

Un accattone moderno ed eterno interpretato dall’intenso e appassionato Cardia sulla scorta d’un composito gioco fisionomico. Maggiormente persuasivo dello scontato vernacolo romanesco. Che scimmiotta la vena canzonatoria, l’irrinunciabile sarcasmo, l’indispettito fatalismo, la cinica rassegnazione dei personaggi pasoliniani. Gli eredi messi in campo da Costantini pagano dazio alla recitazione troppo scolastica dei loro avvenenti interpreti. Inadatti a restituire il senso d’infeconda ribellione di chi non ha soldi nemmeno per far piangere un cieco. Di chi antepone alle tentate rapine il “tentato lavoro”, per cui non è portato. Di chi non sa cos’è l’inconscio, quantunque lo percepisca. Di chi è in guerra con la sintassi, anche se vorrebbe montare in cattedra nelle vesti d’insegnante. Fa eccezione il convincente Alessandro Martellucci alias Nasca. L’unico ad avere l’automobile. Frustrato dal bisogno di vendere il crick agli amici avvezzi a percorrere “a pedagna” sin dalla nascita con piglio svogliato il medesimo tragitto. I sogni di Nasca lacerano la nota acre, legata alla verità priva di sbocchi, aliena alla speranza, con l’ausilio di alcuni tocchi bizzarri degni d’interesse. Viceversa le modalità esplicative congiunte ai racconti estrapolati da Accattone, Mamma Roma, La ricotta di Pasolini si vanno ad amalgamare in maniera troppo prevedibile, estranea al mistero della poesia, alla necessità d’inventare favole, all’assoluto bisogno dello spirito di convertire i modesti corsi e ricorsi storici in fulgide leggende. Da tramandare ai posteri. Per sancire nel mito gli schietti vincoli di suolo e di sangue.

Il passaggio in tal senso dalla teoria alla prassi persuade meno di quello, attinto ad Andrej Tarkovskij in Andrej Rublëv ed Ettore Scola in C’eravamo tanto amati, dal bianco e nero al colore. L’accidia congenita, i progressivi siparietti, le sterili dispute dialettiche, la sapida bizzarria frammista all’inguaribile malinconia di Ruggeretto, Amerigo, Nicoletta, Scintillone, Stella, proprietaria del bar di quartiere dove i posti ai tavolini vengono occupati in todo da residenti “scannati” che ammonisce inutilmente a ogni piè sospinto, della perspicace Maddalena, svelta a capire la morale della favola cara a Pasolini, delle amiche-nemiche Crocefissa e Susanna testimoniano l’indubbio sentimento d’affetto dell’autore. Che dietro la macchina da presa dimostra di conoscere e amare la materia trattata. Rinvenibile soprattutto negli impliciti richiami citazionistici a La notte brava di Mauro Bolognini. La sua “giornata tipica”, anziché “particolare”, cosparsa d’inquadrature ora fisse ora dal basso, d’ovvie strizzate d’occhio ai road-movie sui generis e a Clerks – Commessi di Kevin Smith, non costeggia però neanche alla lontana la fragranza dell’originalità ad appannaggio degli autori con la “a” maiuscola. Le musiche del maestro Nicola Piovani scandiscono da copione tanto le scontate pieghe ridicole quanto i pretenziosi interludi allegorici. I suoni diegetici del treno, del vento, degli elementi acustici disturbanti ed empatici tradiscono la velleità di attingere all’irraggiungibile montaggio delle attrazioni del guru sovietico Sergej Michajlovič Ėjzenštejn. La cui superba irregolarità, in grado di porre in evidenza la valenza eccezionale di ciò che in apparenza sembra d’ordinaria amministrazione, è totalmente fuori dalla portata dei copiosi esercizi stilistici, sebbene profondamente sentiti, di Accattaroma. I numi tutelari chiamati in causa costituiscono innegabilmente, come si dice nella Città Eterna, un’altra camminata.

 

 

Massimiliano Serriello